poetepost

La casa fuori (e dentro di noi).

Cambiare casa. Lasciare la casa. Ricordare la casa. In un’epoca di migrazioni e scambi culturali globali, in cui le vite personali e i confini si fanno mobili e fluidi, la casa rimane il simbolo, forse il più femminile, di un’identità in trasformazione.

Dieci artiste della Compagnia delle Poete, gruppo di una ventina di donne di diversi Paesi, accomunate dal legame con l’Italia e dalla scelta di esprimersi in lingua italiana, sono partite da questo tema per dare vita al loro ultimo spettacolo “La casa fuori” presentato in prima nazionale alla Casa delle Donne la sera di mercoledì 25 ottobre.

Vestite di nero, bei volti di età diverse, le poete si sono avvicendate sulla scena recitando ciascuna i propri versi, accostandosi l’una all’altra, alternando i propri versi in un rimando continuo di voci, echi e corpi, come in un unico grande coro.

Un’armonia di accenti diversi – sia nel senso delle sfumature espressive, sia nel senso delle diverse provenienze linguistiche – che ha suscitato grandissima emozione nel pubblico assiepato nello Spazio da Vivere.

“Noi non facciamo teatro ma ‘mise ensemble’ di poesia” ha esordito Mia Lecomte, poeta italofrancese e fondatrice, presentando il lavoro del gruppo transnazionale. ”Ognuna di noi declama i suoi testi, che mantengono tutta la loro individualità ma si collegano in un continuo”. E Candelaria Romero, argentina, l’unica del gruppo che è anche attrice di teatro e sa cosa significa far passare la parola poetica attraverso la voce e il corpo, precisa: “Il comune lavoro di oralità ha cambiato anche il nostro modo di scrivere poesia. E’ un percorso, spesso modifichiamo i nostri versi quando li recitiamo insieme alle altre”.

Non si può raccontare uno spettacolo di poesia. Si può solo accennare ad alcune parole rimaste nella mente. Il buio dentro e fuori: le finestre della casa ci fissano scure. I detriti, le mura scrostate. Gli odori – di sambuco, di vernice fresca, di inchiostro. Gli interni: “Voglio tenere tutto tranne le mura”. I ricordi: “Aveva il tappeto rosso la mia stanza, perdeva i peli ma ero contenta, l’unica stanza che ho scelto”. E le figure dentro la casa: la madre, il nonno, i fratelli che picchiano alla porta dell’unico bagno, il cane sdraiato dietro la porta.

Memoria, nostalgia, abbandono. “Terrazze con piante non mie”. Vissuti di perdita e di continuo spostarsi verso altre case, altre città, altri paesi. “Ho traslocato quattordici volte. Chi ha traslocato di più? Cambiare continente vale dieci volte. Cambiare paese ne vale cinque, cambiare città due. Cambiare lingua potrebbe valere niente. Oppure l’anima”.

Si colgono alcuni, vaghi riferimenti geografici o storici che incuriosiscono. Due sono francesi, due argentine, le altre sono una rumena, una croata, una polacca, un’austriaca, una greca, una statunitense. Ma l’intento delle poete non è quello di mettere in risalto le provenienze, piuttosto quello di tessere una trama collettiva. E ci riescono in modo nuovo e sorprendente.

Sullo sfondo, le quinte mobili disegnate da Cesare Oliva, la musica originale di Maurizio Stefanìa, le luci di Paolo Dal Canto.

Grazia Longoni