Pubblichiamo questo articolo di Lea Melandri a pochi giorni dall’inaugurazione, alla Casa, della mostra Madri Perdute (12-19 ottobre), con cui vogliamo riflettere sul tema della maternità.

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Rilette oggi, sotto l’effetto della recente sequenza di infanticidi, le parole con cui Jules Michelet, nel 1859, descriveva il destino femminile, prendono un significato sinistramente capovolto: “Deve amare e partorire, è questo il suo sacro dovere.

Fin dalla culla la donna è madre, pazza di maternità”. Nell’idealizzazione di un uomo-figlio, certo di essere il destinatario naturale della felicità, niente lascia intendere che l’ “eccesso di passione” di cui si è creduta depositaria la donna avrebbe potuto compartire odio anziché amore, follia al posto di salute.

Eppure non doveva essere difficile immaginare che il sacrificio di sé, la dedizione totale agli altri, avrebbe potuto chiedere presto o tardi una contropartita altrettanto distruttiva. Anche Freud, così lucido nel riconoscere la commistione di sentimenti opposti, di tenerezza e ostilità, nei confronti di persone amate, non esita a ritagliare intorno alla coppia madre e figlio una zona franca, “esente da ambivalenze”. Se non fosse così “sorprendente” ancora oggi ammettere che una madre possa uccidere il proprio figlio, non si capirebbe perché, fra tanti delitti famigliari di cui è stata data notizia negli ultimi tempi, sia sempre “Medea” ad accentrare fantasie, perizie scientifiche, supporti statistici, “piani” governativi di attacco e difesa.

L'”oggetto medico” per eccellenza resta quel corpo che, svuotato di una propria verità psicologica e ricoperto di idealità, non ha mai smesso, agli occhi del mondo, di partorire figli e mostri, vita e morte, beatitudine e dannazione. Nell’Ospedale parigino della Salpetrière, verso la fine dell”800, le membra scomposte delle “grandi isteriche” venivano esposte al pubblico e studiate secondo le direttive di Charcot: “guardare, guardare ancora, guardare sempre, così si arriva a vedere (…) e vedere è comprendere“.

Con uno sguardo simile, da “osservatori obiettivi”, una schiera di psichiatri, psicologi, criminologi ha elargito in questi mesi alla stampa e alla televisione giudizi, rassicurazioni, preveggenze sulle “malattie mentali” che incalzano la nostra epoca, mescolando indifferentemente depressione e obesità, handicap e psicosi da parto, disagio giovanile e invalidità di vecchiaia. 
Non potendo offrire a una società sempre più insicura la “via d’uscita” da quello che viene avvertito come un pericolo incombente, per quanto indeterminato, la medicina e la scienza si limitano a diventare una sorta di “anestesia”. 
”Mio malgrado mi ritrovo ad affermare -scrive Renos K. Papadopoulos (N. Janigro, La guerra moderna come malattia della civiltà, Bruno Mondadori 2002) – che veniamo utilizzati dalla società, in quanto esperti, per esorcizzare con spiegazioni esaurienti la disturbante complessità della distruttività e sostituirla con teorie risananti.” Isolata e trattata come qualcosa di “esotico“, la violenza si allontana, come se non avesse niente a che vedere con ogni individuo, come se non fosse “un tragico aspetto della condizione umana”.

La fretta con cui l’infanticidio commesso da una madre viene archiviato sotto l’etichetta, per un certo verso rassicurante, della “follia” e della “malattia mentale” segnala che, in modo paradigmatico, il sovvertimento del rapporto più “intimo” e “umano” scuote le coscienze, sollevando il dubbio intollerabile che l’antico comandamento “non uccidere” stia rientrando dal lungo esilio, per chiedere riconoscimento e cittadinanza.

Restituire alla morte – quella che si dà ad altri o che si subisce – il posto che ha nella vita del singolo e della collettività, dove non ha mai smesso di mescolarsi all’amore, non ha altro significato che fare il passo necessario per comprendere l’ “umano” nella sua complessità, e sottrarre al determinismo biologico comportamenti che nascono nel contesto di storie e relazioni particolari, suscettibili pertanto di cambiamento. Da questo punto di vista, la barriera delle “competenze mediche”, chiamata a confortare una società ormai scossa dal dubbio riguardo alle sue reali attitudini etiche e civili, diventa un ulteriore ostacolo o censura per la conoscenza, che l’individuo può trovare in sé, delle passioni consapevoli o inconsapevoli che lo agitano.

Se è vero che la storia dell’umanità è “piena di assassinii”, e che l’uomo primitivo che è in noi non si è mai del tutto eclissato, non dovrebbe essere difficile capire quali sentimenti elementari, incontrollabili, fanno debordare la voglia di uccidere da semplice pensiero o desiderio silenzioso, rivolto a “chiunque ci sbarra la strada”, alla sua messa in atto. “Le azioni violente non vengono necessariamente commesse da individui pervertiti, ma da persone comuni che si trovano intrappolate in circostanze tragiche: la maggior parte degli esseri umani è in grado di commettere azioni violente(R. Papadopoulos).

Questo “sollievo” che precipita subito dopo nell’inferno, questa “rivincita di persone tormentate” che permette, sia pure in un solo attimo, di eliminare, insieme al pensiero, un conflitto e una sofferenza intollerabili, più che i tratti della depressione richiama l’impulso disperato ad aprirsi comunque una via d’uscita, a costo di passare sul proprio corpo e su quello di chi, come un figlio, si considera parte di se stessi.

Le madri e i padri, la figlie e i figli che uccidono soffrono, prima ancora che di abbandoni, di legami invasivi, che promettono vita e che strangolano, che fanno dell’intimità familiare e amorosa una difesa, e nel medesimo tempo, un’ingiustificata limitazione. Chiedere che sia un’altra “rete”, sociale e parentale, sorretta istituzionalmente da servizi, cure farmacologiche, ricoveri obbligati, “sentinelle” nascoste dovunque, in ogni amico o vicino di casa, a prevenire e contenere la distruttività, è come attribuire potere risanante a una camicia di forza. All’inviata de “La Repubblica” (30 maggio 2002), un’infermiera dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dove vengono internate madri infanticide riconosciute incapaci di intendere e volere, al momento del delitto, spiegava con meraviglia che molte di loro preferirebbero a quel luogo nel verde, “con una parvenza di casa”, il carcere. Forse, forzando il significato del loro desiderio, si può intendere che espiare una colpa anziché subire l’esilio protetto della malattia mentale, è un modo per sentirsi ancora parte della collettività, per dire implicitamente quanto la patologia, nelle sue varie forme, sia imparentata con la comune, ordinaria sofferenza umana.

 

Lea Melandri

 

L’articolo è stato pubblicato dalla rivista “Carnet” nel Luglio 2002