di Laura Pariani
(La nave di Teseo, 2019)

“Quel tal Mangiaterra vero figlio di Caino, ha l’animo pervertito a tal punto che, secondo quanto riferisce il suddetto Manfrè, bestemmia contro la provvidenza, negando addirittura che le disuguaglianze del mondo sian volontà divina e predicando la giustezza della rivolta” pensa Lucrezio Firetti, Primo Cancelliere di Busto Grande, nel cui territorio fino alle paludi del Tesin, il Ticino, si svolge la scena del romanzo. Scena caravaggesca di due annate del ‘600, 1652, 1672, con il barocco laccato e sprezzante dei dominanti spagnoli e il suo contrappunto pezzente, come una corte dei miracoli campestre, delle terre e dei ‘terrieri’, i contadini, e cavatori, locandiere, briganti, intorno alla figura di Bonaventura Mangiaterra. Divenuto capopopolo con la sua banda contro le angherie di nobili e soldati nella brughiera lombarda, sarà presto leggenda per la Bella Parola, di libertà, giustizia, in una versione ribelle della Bibbia. Una minaccia al potere costituito, che muove spie e Inquisizione per fermarlo. Anche se “…sto Bonaventura… fa vita casta pur essendo giovane e di bell’aspetto, non si accompagna mai a una donna… Non è strano?” Un segreto lo circonda che circola insoluto fino alla sua morte, in una spirale di rimandi e di fatti che s’intersecano.   Il gioco di Santa Oca propone già dal titolo il suo andamento labirintico, nel tempo, nello spazio, nel linguaggio. Laura Pariani svolge la narrazione su due piani temporali, l’anno in cui si dipana la storia e vent’anni dopo con le peregrinazioni di Pulvara, seguace di Mangiaterra, entrata nella banda travestita da uomo, e che ora ne ripercorre le tracce, narrandone le imprese di cascina in cascina e seguendo un filo numerologico secondo il computo dell’Oca, già uccello iniziatico simbolo degli spiriti liberi, fino al ritrovamento delle spoglie del capo amato e della loro vera identità.

Il linguaggio segue, sprofonda lucido a volte nell’espressività pregnante della parlata di allora, ancora viva in dialetti oggi di alcuni paesi di quella zona, una ricerca che Laura, originaria di quel territorio, persegue con maestrìa, in una consapevolezza vitale fra storia, lingua, fonti e letteratura.

Già i capitoli, col nome dialettale del santo del giorno, e dedicati alle fasi lunari, parlano la lingua ciclica del tempo contadino, mentre il racconto va svelando le gesta mai raccontate di Bonaventura, in quel mondo dimenticato, “terra volpina”, di “gente senza parole”, tra il dominio e le battaglie. Una ‘personaggia’ carismatica esce ardita e sacrificale dai meandri della Storia.

Rita Bonfiglio