di Emanuela Carniti
(Manni Editore, 2019)

Poetessa madre mia

Ti ho inventata madre,

quando ho cominciato non so…

Inizia con una poesia dedicata alla madre, di cui riporto i primi due versi, questo libro in cui Emanuela Carniti prende per mano la figura di sua madre, quella che ha lasciato nei suoi occhi, nel suo cuore-mente e quella che ha passato tutta la vita attraversata dall’ispirazione poetica e dai suoi adepti intorno a lei, dai grandi ai derelitti. Una testimonianza come figlia e scrittrice di una figura di Alda Merini poeta, intensamente vitale, che attraverso la poesia si mette al mondo, con tutta la sua esperienza quotidiana di prove forti, dolorose o felici. A partire dall’infanzia, i genitori amatissimi, la madre dal fascino severo  e la figura di un padre per lei maestro di parola e cultura, a 12 anni toccata dall’esperienza dura della guerra, i bombardamenti, che li resero profughi, al ritorno l’unica stanza sui Navigli e pur l’urgenza poetica. “Le mie prime cose le ho scritte sulle pietre di casa, c’erano le case disastrate, così mi sedevo su una pietra e sull’altra scrivevo…  Avevo 15, 16 anni”. E lì nel fermento postbellico frequenta il cenacolo di poeti e critici letterari a casa di Spagnoletti in via del Torchio, dove conobbe Maria Corti (che la seguirà sempre e la inserirà poi nel Fondo manoscritti d’autori moderni e contemporanei, Università di Pavia), Quasimodo, Turoldo, Manganelli e la storia d’amore con lui… E per loro, lei, giovane meraviglia della poesia, a cui dare riconoscimento.

La vita, la famiglia, le figlie amate, il tempo inabissato nella quotidianità, l’esperienza tragica e iniziatica quasi per lei, nell’apertura totale della coscienza, del manicomio, l’abbandono da parte del mondo letterario che andava verso più freddi lidi poetici, non mancarono mai di unire la sua sofferenza a una continua libertà creativa e umana, “…io sono poeta/e poeta rimasi tra le sbarre”.

Anche se fu un calvario, e “iniziò anche il nostro”, ricorda l’autrice, allora undicenne.

Quando vent’anni dopo Alfabeta anticipò brani di “L’altra verità. Diario di una diversa”(Scheiwiller ’86), “Giorgio Manganelli li presentò illustrando alla perfezione il rapporto arte-vita in mia madre: – Questo libro, nato da una esperienza da cui non pare lecito salvarsi, ha in sé un’elastica, fantastica, selvatica irruenza; la forza ilare e minatoria delle parole, delle frasi, del ‘loro destino di fiori’, ininterrottamente propone un disegno di gioia, una nitidezza amorosa… la vocazione salvifica delle parole…

Nell’84 “La terra santa”, apice poetico, sorprendente raccolta, dirà Spagnoletti “della fraternità dei folli in Dio”. Nuova prorompente stagione per Alda, “Dall’uscita di Testamento… il mondo letterario italiano fu obbligato a prendere atto della presenza di mia madre…”,  scrive Emanuela, e il  mondo mediatico ne diffuse l’immagine e la voce.  Escono “Vuoto d’amore”, premio Montale ’93, “Ballate non pagate”, ’96 Premio Viareggio, “Fiori di poesia”,’98, a cui seguirono poesie, autobiografie, dettate al telefono o a voce ai nuovi suoi appassionati/e, nuove raccolte amorose e mistiche, aforismi in libretti amanuensi come un’espansione quasi delle scritte sul muro della sua stanza col rossetto (Il muro degli angeli, trasbordato poi al Museo), dei fogli volanti con poesie battute su carta carbone, sparsi nei bar e librerie dei Navigli. Un’espansione e una libertà che non si poteva contenere, anche quando capitava a casa sua, a Omegna, ricorda affettuosamente, ormai pacificata, la figlia, e la voleva tutta per sé senza giorno né notte.

Un’intelligenza poetica unica, nel generoso caos particolare  e ribelle della sua vita.

(il libro è corredato al centro da un Album di foto di famiglia anni 50/60 e da ritratti di Alda fino al 2007)

17 marzo ’22

Rita Bonfiglio