di Paola Redaelli.

Ciò che scriverò sui profughi non sarà politicamente corretto in nessun senso. Vorrei semplicemente dar voce ai miei pensieri ma non solo: anche a quelli che ci si scambia al telefono tra amiche e amici, giorno dopo giorno di questa guerra maledetta.

Profughi nigeriani in fuga dall’avanzata di Boko Aram. © Malik Samuel/MSF, 2017

Ieri, all’uscita dal supermercato, ho incontrato una signora nigeriana che chiedeva l’elemosina. Sporchissima e imbacuccata in molteplici strati di indumenti. Mi sono fermata a parlare con lei. Mi ha raccontato, in un italiano più che decente, ciò che segue: 1. È venuta anni fa dalla Nigeria da sola, dopo che suo marito era morto. 2. Non ha più (e sottolineo l’avverbio, su cui però lei non ha voluto dare spiegazioni) figli. 3. Non le piace dormire all’aperto. 4. Chiede l’elemosina per pagare un letto al chiuso. 5. Lavorava “nelle case”, ma ora non trova più lavoro perché le fanno male le ginocchia. 6. Non vuole tornare in Nigeria, perché “lei signora non sa come è la Nigeria”. Quando ha finito di parlare, piangeva a dirotto.

Le ho dato dei soldi, troppo pochi ritengo ora, e ho guardato le sue gambe gonfie,tese davanti a lei, su cui passava su e giù le mani come nel tentativo di lenire il dolore. Inconsapevolmente mi sono totalmente immedesimata nella sua condizione di “malata alle ginocchia”, pensando alla mia esperienza personale, a quanto costa farsele curare, o anche solo attutirne il dolore. Poi me ne sono andata.

Tornando a casa mi sono chiesta se io avrei ospitato la signora. Risposta: onestamente io non avrei ospitato la signora. Ho pensato che le avrei potuto offrire di fare una doccia a casa mia. Ma non di più.

Eppure, giorni fa, ho detto spontaneamente a una signora ucraina, fuggita da Mykolaïv con marito, figlia e nipote, che lei sì, sarei stata disponibile ad ospitarla. Non tutta la famiglia, ma lei sì. Aveva un’alternativa e ha scelto perciò una sistemazione collettiva.

Nei primi giorni dopo lo scoppio della guerra, incollata alla televisione, avevo provato un forte sconcerto osservando le immagini dei profughi ucraini che assaltavano i treni per raggiungere la frontiera polacca o stazionavano in auto aspettando di passare quella moldava. Mi sembrava che quelle donne e quei bambini, dalla pelle chiara, ben nutriti e ben vestiti, così occidentali coi loro giocattoli, i loro cagnolini e i loro gatti, non potessero davvero essere profughi. Li paragonavo con le persone (alcune le ho conosciute) che abitano i campi profughi palestinesi, che sono fuggite dal Corno d’Africa, con i siriani, con le poche immagini che ci sono giunte dalla Libia, con i corpi del popolo dei barconi che le ONG tentano di salvare.

Mi ci è voluto qualche giorno per assimilare “emotivamente” che quelli fossero profughi di una guerra. E l’ho fatto ragionando, più che di loro, delle mosse dei “potenti” protagonisti – Biden, Putin, Zelens’kyj, Stoltenberg, Draghi… E soprattutto delle conseguenze che questa guerra avrà per noi. Solo così gli ucraini sono diventati, nella mia testa, sia profughi “veri”, sia un pochino “nostri” profughi.

Ma ciò non è serve a spiegare perché sono stata disposta ad ospitare la signora ucraina e non la signora nigeriana.

Anche la mia mente e il mio sentire sono attraversati dalla “linea del colore” di Du Bois? Non so, forse anche, ma mi sembra che la questione sia ancora più complicata. Scrive Alberto Burgio che l’ideologia razzista, il razzismo, consustanziale alla nostra modernità, nato nel celebrato secolo dei Lumi (ne fu convinto esponente Voltaire) si articola in due grandi famiglie. Una nasce a giustificazione della subordinazione e dello sfruttamento in Europa e nelle colonie, l’altra afferma non l’inferiorità, bensì l’estraneità radicale di alcuni gruppi umani.

Ecco, io penso di dover ancora fare i conti con questa famiglia dell’ideologia razzista. Identificarmi con il dolore alla gamba della signora nigeriana non è stato sufficiente a farmela sentire abbastanza vicina.