Simbolo della lotta contro le mutilazioni genitali

Marta-Salvucci22Nice Nailantei Leng’ete è arrivata alla Casa delle Donne venerdì 9 maggio pomeriggio, alla fine di un tour di una settimana in Italia con i rappresentanti di Amref. E’ una ragazza del Kenya meridionale, ha 23 anni, è alta e snella, vestita di blu e rosso brillante, al collo un nastro intrecciato di perline colorate. Porta con fierezza l’eleganza naturale della sua etnia. Il sorriso appare timido quando stringe tante mani e saluta a voce bassa. Ma con Stella  Okungbowa, copresidente della Casa, si trova subito a suo agio, parlano fitto fitto lo stesso inglese africano.

“Come ti trovi ad affrontare tante persone, in un ambiente così diverso dal tuo, a stare davanti a taccuini e fotocamere?”. “Bene” risponde lei, “sono contenta di essere qui e di raccontarvi la mia storia”. E appena comincia a parlare si capisce che sotto quella riservatezza c’è una determinazione di ferro. Nice aveva 8 anni quando ha capito che avrebbe dovuto sottoporsi, come  tutte le ragazze-bambine della sua comunità, al rito della “circoncisione”, il taglio del clitoride. Orfana dei genitori, è scappata con la sorella dalla casa della zia dove era prevista la “cerimonia”, sono state picchiate. Un anno dopo ci hanno riprovato, lei è scappata ancora, è andata a casa del nonno, un anziano del villaggio che era stato insegnante. Gli ha detto: “Voglio continuare a studiare, se mi tagliano verrò ritirata dalla scuola e dovrò sposarmi subito”. Lui ha capito.

C’è un legame diretto, tra i Maasai del Kenya, tra la mutilazione genitale e l’educazione: fatta l’iniziazione, la bambina diventa donna, il suo destino è di essere moglie e madre, non va più a scuola e si sposa immediatamente. Non c’è un’età precisa: quando il corpo mostra i primi segni della pubertà – il seno, la rotondità delle anche – la ragazza deve sottoporsi al “taglio”, davanti alle donne di casa. E non può piangere né manifestare dolore, pena il disonore della famiglia. Il grande banchetto della cerimonia che segue il rito, che costa molto, andrà deserto. E nessuno vorrà sposarla.

Come potevi, a otto anni, opporti a tutto questo? “Avevo visto alcune mie coetanee morire dissanguate o per infezioni” risponde lei. “E a scuola sapevo che le bambine di altre comunità non venivano tagliate”.

Non le bastava esser sfuggita a quel destino, un gesto che pure la condannava alla riprovazione generale. Voleva parlare con i Moran, i giovani maschi guerrieri Maasai. Ha impiegato un anno e mezzo ad avere dagli anziani l’autorizzazione ad affrontarli. Poi, pian piano, è riuscita a farsi ascoltare. Nel frattempo, verso i 15 anni, è entrata come peer educator (educatrice alla pari) in un progetto di Amref. Insieme a medici, ostetriche, volontari, ha allargato i suoi discorsi. Poteva parlare della salute delle donne, dei rischi che la mutilazione comporta nella vita adulta, soprattutto nel parto, della prevenzione dell’Hiv. E soprattutto parlava della necessità che le donne possano studiare senza essere obbligate a sposarsi da bambine, per diventare quello che vogliono. “Mi hanno ascoltata perché ero una di loro, una figlia del suolo” dice. Alla fine, i Moran le hanno consegnato il bastone nero che simboleggia la leadership: “Non solo potevo parlare, potevo anche zittirli” dice.

La salute, l’educazione, sono temi forti per opporsi alla mutilazione. Ma c’è, in quelle comunità africane, l’idea di difendere l’integrità del corpo femminile, c’è il piacere sessuale, c’è la consapevolezza che quel “taglio” è un controllo sulla sessualità delle donne? Nice dice di sì, dice che molte donne anziane ne sono consapevoli e che anche gli uomini capiscono. Gli stessi giovani maschi – che possono sposare più donne – ammettono di preferire il rapporto con le ragazze di altre comunità che non hanno subito la mutilazione. E in un video sentiamo la frase di un’anziana della sua comunità: “Il clitoride è come lo starter per la motocicletta. Se non c’è, il motore non parte”.

Resta, molto forte, il bisogno di rispettare la tradizione con dei riti alternativi di passaggio. Con gli anziani della comunità Maasai ne hanno creato uno che dura tre giorni, come la cerimonia tradizionale. Per due giorni le ragazze partecipano, insieme a medici e rappresentanti del ministero della Salute, a un training sui temi della salute materno-infantile, il terzo giorno si fa festa, tutti vestono gli abiti più belli, gli uomini portano le birre locali, le donne preparano i cibi.

Marta-Salvucci9Con questi riti alternativi, Nice e il suo gruppo hanno salvato 620 ragazze Maasai. Negli ultimi anni, il progetto si è allargato ad altre comunità del Kenya e della Tanzania. Ovunque il rito è stato elaborato dalla comunità in base alle proprie tradizioni culturali. In tutto, 2670 ragazze sono state sottratte alla mutilazione.

Nice ci mostra un fascio di collanine blu che ha portato con sé. “Una settimana prima della circoncisione,  la collana veniva donata alla ragazza dal padre, che le diceva di essere forte, di non piangere, di diventare una brava moglie e madre” racconta. “Ora i padri regalano ancora questa collana alla figlia e ancora le dicono di essere forte. Ma per continuare a studiare, per diventare la donna che sogna di essere”.

Ce ne andiamo ciascuna con una collana e ci sentiamo, con Nice, un poco più forti.

Grazia Longoni