di Floriana Lipparini.

Divampa una nuova, inaccettabile guerra in Ucraina, nel cuore dell’Europa. I civili sotto le bombe, vittime di interessi contrapposti. Nulla sembra aver insegnato la guerra nella ex Jugoslavia

La guerra non porta la verità, non porta la giustizia, non sana le ferite. La guerra è il male assoluto, il crimine imperdonabile. Eppure ricompare di continuo come se la nostra specie restasse inchiodata ad ancestrali istinti di pura violenza, vanificando in un attimo millenni di evoluzione, di arte e di cultura.

Impossibile oggi non pensare a Sarajevo, alla guerra che trent’anni fa dissolse il Paese chiamato allora Jugoslavia, un nome scomparso nelle nebbie. Le nuove generazioni forse non sanno nemmeno più cosa fosse.

Quella guerra in Europa, ai nostri confini, non fu capita, fu sottovalutata e potenze esterne ebbero buon gioco a soffiare sul fuoco con false narrazioni che incendiarono differenze fino a quel giorno capaci di convivere in pace. Quella guerra aveva lo scopo di modificare le rispettive sfere di influenza decise alla fine della seconda guerra mondiale, a qualsiasi prezzo.

Oggi in Ucraina sembra replicarsi la stessa dinamica, ma speriamo che non prosegua allo stesso modo e la follia si fermi, pensando con angoscia alle persone in pericolo.

Allora il movimento pacifista entrò effettivamente in scena. Appelli, manifestazioni e cortei riempirono le piazze. Respingendo la cinica realpolitik dei governi che non si spesero per fermare il massacro, pensammo che dare voce ai civili e soprattutto alle donne, le più tragicamente colpite da inenarrabili violenze, avrebbe almeno mostrato al mondo una ragione per fermare quelle divisioni imposte, quelle stragi fratricide, quegli stupri bestiali. Andammo di persona a raccogliere quelle voci, le portammo con noi per diffonderle ovunque, condividemmo il dolore, facemmo il possibile e a volte l’impossibile. Ma niente riuscì a interrompere l’orrore.

Insieme alle amiche jugoslave riflettemmo a lungo sul senso delle guerre, sulla loro radice intimamente legata al seme patriarcale della storia, alla volontà di dominio dei maschi sui corpi delle donne che si esprime al suo apice nella violenza della guerra. Da quella disperazione, da quel paese in macerie forse ci illudemmo che qualcosa sarebbe stato capito, qualcosa sarebbe cambiato.

Ma oggi esplode una nuova guerra al centro dell’Europa, nell’incredulità generale. Eppure da anni si sanno le tensioni fra Russia e Ucraina, si sanno i conflitti fra i rispettivi interessi economici sulle risorse energetiche, si sanno gli spiriti regressivi e nazionalisti che ancora animano le politiche di molti stati europei.

Amico o nemico, bene o male, vero o falso, bianco o nero, è questo rozzo schema binario a guidare gran parte dei comportamenti umani. Ma dove sta la ragione quando scoppia la guerra è quasi impossibile capirlo, perché la complessità delle situazioni è impossibile da ridurre a uno solo dei campi in conflitto.

Quando una guerra scoppia l’unica verità è data dalle macerie, dai corpi, dal sangue, dal numero delle vittime. Da una parte e dall’altra.

Nel fuoco dell’esperienza jugoslava qualcosa ci fu comunque molto chiaro. L’imposizione di rigidi confini, o per meglio dire la politica dei confini, è un sistema gravido di ingiustizie e potenziali violenze. La storia delle genti che abitano nelle zone di confine è sempre una storia di intrecci, parentele, mescolanze e scambi. Ciascuno parla anche la lingua dell’altro, ciascuno entra continuamente in relazione con l’altro. Sono i vertici, lontani dal sentire comune popolare, a decidere le chiusure, le divisioni, le identità forzate. E qui sta anche il seme delle guerre.

Non conviene ai poteri accettare il semplice fatto che le popolazioni non si possono dividere con un coltello, con una riga dritta, con un confine identitario che non corrisponde quasi mai alla realtà, non conviene il noi plurale delle differenze capaci di convivere fin quando gli interessi delle caste di potere non soffiano sul fuoco.

Nella storia i regni e gli imperi hanno sempre annientato e distrutto le esperienze di convivenza pacifica fra diversi, perché minacciano il loro potere assoluto. Pensiamo alla Francia del Sud del Milleduecento, all’Andalusia del Medioevo, e appunto alla Jugoslavia.

Al contrario, la capacità di aprire e attraversare pacificamente i confini, la capacità di convivenza fra differenze è proprio quella diversa strada, quella diversa politica e quel diverso stare al mondo su cui molte femministe ragionano con la speranza di farne una scelta accettata e universalmente condivisa.

In questo senso deve anche finire la tragedia delle persone in cerca d’asilo che ai confini europei e mediterranei vengono respinte, minacciate, vessate e maltrattate, perdendo spesso anche la vita. I confini uccidono, se non s’impara a viverli come zone fluide di incontro fra esseri umani titolari di diritti oltre che di interessi, primo fra tutti quello alla vita.

Insomma, il contrario della guerra.