Eccoci, insieme alla primavera che risplende in un mondo attraversato da guerre tremende, con tre libri recenti che esplorano le relazioni familiari e quelle tra uomini e donne in modo insolito e creativo.

Una voce narrante maschile, piena di odio e di risentimento verso la madre e il mondo intero, è al centro del romanzo della giovane scrittrice moldava Tatiana  Tabuleac, L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi, editore Keller 2023.

Un romanzo costruito e narrato con grande efficacia per esplorare l’insolita e commovente relazione tra il figlio pieno di risentimenti e di nevrosi e la madre, con la quale il giovane trascorre gli ultimi mesi della vita di lei , colpita da un tumore incurabile. Un racconto straziante che passa dalla rabbia a momenti di dolcezza e di amorevole comprensione, e mette in luce la grande  vitalità e creatività sia della madre che del figlio, che diventa poi un pittore affermato.

Il romanzo di Nadia Terranova “Quello che so di te”  , Guanda 2025  fonde con grande abilità narrativa l’esplorazione delle propria genealogia femminile, dominata dalla figura della cupa e forse folle bisnonna Venera , coi sentimenti e le emozioni della (propria) recente maternità: ovviamente le due cose sono strettamente intrecciate perché la nuova nata ha il potere di rievocare, ma anche di superare e trasformare la “memoria familiare”.

Il romanzo di  Emma Saponaro  Il Gufo, ed Les Flâneurs, 2024,  è un noir in cui la voce narrante maschile del protagonista – un uomo antipatico e irrisolto-  consente di esplorare dall’interno le reazioni e i desideri patriarcali riguardo alle donne e alla sessualità.

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Tatiana Tibuleac,
L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi,
editore Keller 2023

Il libro si apre con parole di odio travolgente, furioso, autodistruttivo verso la propria madre e il mondo intero.  L’io narrante è Alexey, un giovane aggressivo   e imprevedibile che ha appena terminato gli studi; la madre –“brutta, grassa, stupida, inutile” – lo aspetta fuori dalla scuola. Il tono aggressivo, spesso anche ironico, del narratore si prolunga nei capitoli  successivi che con rapidi passaggi all’indietro e in avanti nel tempo fanno comprendere le  sue frustrazioni, il sentimento di non essere accolto e amato dalla madre e dagli altri, la rabbia verso il padre che se ne è andato con un’altra donna. Alexey ha vissuto qualche tempo di calore familiare solo quando c’era con loro anche una sorellina, che però è morta in modo improvviso e assurdo.  La nonna è odiata quasi quanto la madre, che dopo la morte della bambina si è chiusa nell’apatia.

I capitoli si susseguono incalzanti e la capacità dell’autrice di calarsi nelle rabbie esistenziali e anche nei disagi psichici del protagonista invitano a proseguire la lettura, molto coinvolgente.

Col passare delle pagine e dei capitoli il tono del narratore però comincia a cambiare. Si affacciano metafore e immagini più lievi e sorprendenti, spazi di tenerezza, dolcezze, gradimenti anziché ripulse, parole e frasi poetiche. C’è spazio per una storia irrisolta con una ragazza, Moira.  La figura della madre, così odiosa all’inizio, si modifica. Sia perché cambia l’atteggiamento del figlio verso di lei, sia perché il cancro incurabile che la sta divorando dall’interno riduce e infine annulla il grasso in cui il suo corpo soffocava. I begli occhi verdi della donna, sorprendenti fin dall’inizio ma sommersi dal gonfiore dei lineamenti, ora spiccano nel suo volto smagrito come pietre preziose.

Seguiamo via via l’insolita estate in cui, al termine degli studi, il giovane rinuncia alle progettate vacanze in Olanda con due amici e decide di accompagnare la madre nel desiderio che ha espresso: rinunciare alle cure anticancro, vivere intensamente il tempo che le resta e trascorrere col figlio un viaggio e una vacanza di due o tre mesi nelle campagne francesi.  Nel corso dell’esperienza scopriamo insieme al protagonista la vitalità della madre, la sua creatività e capacità di godere delle semplici gioie, di nutrire affetti e accogliere sorprese, uscendo dall’apatia. Come quando si diverte a comprare in un mercatino dell’antiquariato una marea di oggetti strani che però si adattano benissimo all’abitazione che i due hanno affittato per i mesi estivi.

Il figlio ha ereditato dalla madre qualcosa di questi occhi straordinari, di questa creatività. Nonostante l’instabilità psichica e le molte disavventure di un’esistenza irrisolta, col passare degli anni Alexey ha poi scoperto una vena artistica eccezionale, è un pittore affermato e ben pagato che trasferisce nei propri quadri le immagini surreali dei suoi sogni e delle sue strane esperienze. Lo psichiatra- l’ultimo di una lunga serie di curanti- che lo sta seguendo gli ha suggerito di mettere per iscritto il racconto di questi ultimi, struggenti mesi vissuti insieme alla madre, per tentare di vincere una stasi creativa e – forse- di tentare una riconciliazione, un perdono reciproco.

Alexey racconta esperienze cariche di tenerezze improvvise, di rovesciamenti di ruoli, di confidenze che affiorano a fatica, di eventi strani come l’avventura di coprire di piccole conchiglie, tra le rocce in riva al mare, il corpo della madre ammalata e ridotta all’estremo- immagine che riaffiorerà poi in un quadro del pittore.  Desideri improvvisi e insoliti che madre e figlio condividono.

Una grande e imprevista capacità di relazione si fa strada in due esistenze frustrate, nell’apatia, nella rabbia e nell’odio che parevano invincibili.

Agli occhi verdi della madre, belli come smeraldi, vengono dedicati i versi che chiudono molti capitoli e che alla fine si raccordano tutti insieme in una poesia.

Gli occhi di mia madre erano uno sbaglio. (Cap. 4)
Gli occhi della mia brutta madre erano i resti di una madre sconosciuta molto bella. (Cap. 11)
Gli occhi di mia madre piangevano da dentro. (Cap. 18)
Gli occhi di mia madre erano il desiderio di una cieca avverato dal sole. (Cap. 24)
Gli occhi di mia madre erano campi di steli infranti. (Cap. 28)
Gli occhi di mia madre erano le storie che non mi aveva mai raccontato. (Cap. 33)
Gli occhi di mia madre erano gli oblò di un sommergibile di smeraldo. (Cap. 49)
Gli occhi di mia madre erano conchiglie cresciute sugli alberi. (Cap. 55)
Gli occhi di mia madre erano cicatrici sulla faccia dell’estate. (Cap.63)

Gli occhi di mia madre erano germogli in attesa” ( finale)

Arriva poi il momento della morte, e ci sono cose che forse ormai non c’è bisogno di esplicitare:

“Il giorno in cui mia madre morì ci sentivamo entrambi come due ladri che avevano rapinato una banca. […] Passammo tutto il giorno a chiacchierare ininterrottamente, mangiando noci e mele, ma senza mai parlare dell’essenziale. Mi separai da mia madre senza che lei sapesse che l’avevo perdonata. Di pomeriggio si alzò il vento e andai in casa a prenderle una coperta. Al mio ritorno, dondolava morta nell’amaca come una crisalide con un principio di farfalla”.

Un romanzo commovente, potente e bellissimo, e molto ben costruito. Dedicato alle perdite e alle ricostruzioni, e alle ferite che non si rimarginano, ma possono fiorire.

Vittoria Longoni


Nadia Terranova,
Quello che so di te,
Guanda 2025

 Lo strano potere della maternità

Che esista questo strano potere, lo afferma Virginia Woolf citata in epigrafe nel testo e prima di lei lo avevano detto anche gli antichi greci, e non solo. Uno strano potere, indubbiamente, che agisce sia nelle relazioni che nella scrittura.

Molti sono i modi in cui l’autobiografia di una madre o rivolta a una figura materna può diventare romanzo, come ci insegna nei suoi testi Mariagrazia Calandrone. C’è l’autobiografia mediata o “temperata”, c’è l’influenza dell’epigenetica coi suoi esiti paradossali, ci sono le volute della genealogia matrilineare che affondano nel passato, le peripezie dell’inconscio, e tutte le capacità della scrittura a firma femminile, quando è esperta e partecipe.

Nadia Terranova mette in scena tutte queste risorse per costruire intorno alla sua maternità -arrivata dopo i quarant’anni- un romanzo polifonico, dall’intreccio sorprendente. Chi parla è un io narrante femminile molto vicino all’autrice, una neomamma alle prese con la presenza ricorrente nei sogni e con l’ombra psichica di una bisnonna inquietante: Venera, che la Mitologia Familiare (efficacemente diventata un personaggio, spesso inaffidabile e intermittente) narrava come ospite temporanea del Mandalari, il manicomio o “Villa salute” di Messina, e poi come un’anziana donna quasi muta e impenetrabile, un “muso cucito”. Alla nascita della neonata, questa strana presenza ancestrale si è materializzata nella neomamma- così le pare- in una macchia sullo zigomo sinistro.

La muta, cupa e forse folle bisnonna Venera occuperà poi gran parte del racconto, mediante l’instancabile ricerca con cui la bisnipote cerca di stabilire la verità su di lei, frugando tra archivi, resti di edifici ormai in rovina, interviste a medici e operatori del Mandalari, vecchi resoconti di cartelle cliniche e ricordi di conoscenti.

Insieme a Venera, come richiamati da lei, ritornano i ricordi veri o deformati di tutta la genealogia soprattutto femminile: la madre dell’autrice e la nonna, le zie e le cugine, col loro carico di figlie e figli, aborti e bambini morti; e anche quella maschile, a partire dal bisnonno Granatiere fino al padre della narratrice, che desiderava essere papà ma non ne era capace, e inaffidabile come era è morto presto, all’alba dei 38 anni.

Ricorrono spesso ed efficacemente nel romanzo le esperienze fisiche della gestazione, della “valle scoscesa” del post parto e della relazione della mamma – e del suo compagno- con la neonata, tra esaltazioni di gioia e sfinenti stanchezze, sensazioni elettrizzanti, pianti “che bucano il cervello” e risa sfrenate. La cifra più insolita della nuova nata è comunque la sua imprevedibilità.

“E’ atterrata sul nostro pianeta da poche ore e ha già disatteso quello che pensavo di sapere di lei. Mi avevano detto che avrebbe pianto o dormito, non che l’avrei trovata sveglia e senza lacrime, senza richieste da interpretare o da esaudire” Un’imprevedibilità della figlia che apre al rispetto, alla ricerca del nuovo, alla libertà- per la nuova creatura- di scegliere la propria via.

Nella ricerca della genealogia femminile, tornano spesso strane coincidenze dei tempi, quasi magiche: il mese di marzo, il numero 38, tutte a segnare svolte, tragedie e novità della famiglia.

Ci sono le fondamentali co-madri, compagne del corso di preparto o amiche e collaboratrici insostituibili, che condividono il percorso reale della neomamma; la consapevolezza di potere o di dover sbagliare nel ruolo genitoriale all’insegna del motto: “lasciateci libere di non farcela”.

La neomamma e la bambina, immerse in questa complicata genealogia matrilineare e in questi rapporti, crescono tra due opposte influenze pedagogiche: quella algida della dottoressa falsamente esperta e aggiornata, la “Doc” che predica solo “il distacco” come soluzione a tutti i problemi relazionali tra la madre e la figlia; e quella amorevole della dottoressa F, “un incanto di bontà”. Essa aiuta e incoraggia la protagonista a vivere la propria maternità e a cercare notizie sulle sue antenate, in particolare su Venera, a scoprire verità che superano le esagerazioni e le falsificazioni della Memoria Familiare. E infine constatiamo che la MF così spesso consultata coincide con la protagonista stessa.

Che fosse vera o falsa la notizia della morte della terza creatura concepita da Venera,  detta Giovanna, deceduta nel sangue quando era ancora un feto al nono mese di gravidanza per una caduta accidentale e mortifera della gestante su una scala del teatro del circo, o che altre fossero le ragioni del disagio psichico e del ricovero della bisnonna, e/o che Venera con tutte le sue disgrazie fosse fondamentalmente una proiezione dell’inconscio, una maschera delle paure e  angosce e delle ambivalenze materne della bisnipote: di questo si parla,  tra molte svolte narrative sorprendenti.

In fondo la conclusione non cambia; al termine della ricerca, la presenza della bambina, così viva e così nuova, fa capire alla neomamma che non potrà mai più permettersi di impazzire.  L’ombra di Venera torna in un passato secondario.

“La nascita di un’altra bambina, la mia, ha cambiato di nuovo il calendario. La saracinesca si è alzata, il cielo si è aperto e adesso il futuro è ovunque, ho spostato i sentimenti in avanti, anche la paura, anche la malinconia”

Vittoria Longoni


Emma Saponaro
Il Gufo,
ed Les Flâneurs, 2024

Emma Saponaro esegue un’acrobazia letteraria che le riesce bene. A dirla meglio, usa delle tecniche narratologiche che le permettono di calarsi nei panni di un uomo, ovvero fa in modo che la voce narrante si cali nei panni di un uomo. Ad osservare più attentamente, sono due le voci che conducono in questa lettura: quella narrante e quella dell’uomo stesso che, a tratti comunica con un suo monologo interiore. Le due voci si alternano senza spezzarsi ma, anzi, integrandosi nei dettagli di vita e negli stati d’animo del personaggio principale. La maestria è tale che l’autrice ottiene immediatamente la cosiddetta ‘sospensione di incredulità’; fa in modo cioè che chi legge, attraverso un atto di fiducia in chi scrive, segua la storia dal di dentro e abbandonando il suo occhio esterno ne condivida la congruenza.

Così, sin dalle prime pagine è facile familiarizzare con Guido Vitali. Uomo di mezza età, pingue e informe nel fisico, trascurato nell’abbigliamento è stato un eccellente commissario di polizia. Ma, coinvolto ingiustamente in un delitto e poi scagionato, decide di dimettersi e si dedica a indagini private con una sua agenzia. E’ solitario, misantropo, ex alcolista con tentativi di recidive, gli è rimasto tuttavia il suo fiuto da bravo investigatore. Non è sposato e non ha rapporti agevoli con le donne, anche se ci fa sapere di avere avuto precedenti relazioni. E’ brusco e poco gioviale anche con rappresentanti del suo sesso. Con tutti, insomma. Anche con la servizievole signora Rosalba, che gli fa da segretaria.

E viene subito sopranominato dalla voce narrante il Gufo. Dunque, un uomo antipatico. E ancor di più Emma Saponaro è sapiente nel coinvolgere chi legge in questo personaggio, nella sua vita e negli accenni al suo passato che dissemina pian piano lungo la storia. E’ facile seguire un personaggio simpatico, più difficile farlo con uno antipatico. Eppure, Guido Vitali non vi mollerà.

Anche perché questo romanzo è un noir che ha il suo ritmo, la sua suspence e che fa le sue rivelazioni a tempo debito. Si intrecciano, dunque, l’evento che lo ha spinto a dimettersi dalla polizia con un paio di indagini attuali, un caso di omicidio e uno di stalker. A questi si aggiungono, come uno spuntone acuminato, le mail di certa, e non meglio identificata, ‘madre disperata’ che lanciano con brevi messaggi appelli misteriosi relativamente a un evento traumatico subito da sua figlia. Il Gufo ne è subito incuriosito e successivamente ossessionato con, in ultimo, la premonizione che la cosa lo riguardi più da vicino di quanto non abbia pensato prima.

Nemmeno il rapporto sentimentale che si istaura con la paziente e amorevole Iolanda riesce a rasserenarlo e a sciogliere i nodi che vengono dalla sua infelice e solitaria infanzia e che lo tengono ingabbiato in un uomo misogino ma tormentato, rude ma con ripensamenti senza riuscire a liberarsi da sé stesso e dal suo passato.

Tutti gli elementi e gli eventi confluiscono come un fiume in piena verso la rocambolesca finale, un po’ spettacolare forse rispetto alla coerenza di tutto il testo ma probabilmente inevitabile.

Non sarebbe corretto rivelare di più se non che il racconto contiene il tema forte del rapporto maschile non solo con il mondo femminile ma con il mondo in genere. E, se è esplicito anche il tema della violenza sulle donne, lo è altrettanto quello della violenza che il maschilismo agisce su sé stesso, quanto i maschi del patriarcato siano vittime degli stereotipi che li riguardano, che siano quelli acquisiti nell’età adulta ma anche, e soprattutto, quelli patiti nell’infanzia sia dalla madre che dal padre.

Un noir raffinato e ben costruito, più spesso di una detective story per la complessità del personaggio e dei temi messi in campo.

Angela Giannitrapani