L’anno scorso, nel primo giorno di lockdown nazionale, la poesia di Mariangela Gualtieri ci ha commosso. La riproponiamo martedì 9 marzo 2021 alle 18 in un appuntamento online particolarmente significativo. Partiremo dalla musica composta e cantata da Jenny Rowley sui versi di Gualtieri. In una registrazione video di Andrea Giovarruscio ascolteremo la voce di Jenny accompagnata al piano da Maria Silvana Pavan.

Sarà l’occasione per parlare di che cosa significa comporre musica in quanto donna, un’esperienza ancora relativamente rara nel panorama contemporaneo, in cui la grandissima parte dei compositori sono uomini. Con Jenny, che molte di noi conoscono bene anche perché dirige il Coro della Casa delle Donne, dialogherà su questo Anita Sonego.

Musica e parole ci accompagneranno poi in uno scambio di riflessioni sull’esperienza che tutte abbiamo intensamente vissuto e che ancora viviamo. È inevitabile tornare con la mente ai giorni stranianti dell’inizio del “confinamento”, del silenzio nelle strade vuote, delle immagini drammatiche degli ospedali, dei camion militari alle porte dei cimiteri, delle saracinesche abbassate, degli sguardi smarriti dietro mascherine che si faceva fatica a trovare. È inevitabile anche confrontare il clima di allora, cupo ma solidale, con la stanchezza, la fatica, l’incertezza, a volte l’insofferenza di oggi.

Eppure, “c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano”, dice un verso di Gualtieri.

In questi lunghi mesi ne abbiamo parlato in diversi incontri alla Casa delle Donne, partendo dai vissuti personali per estendere lo sguardo al mondo in cui viviamo. Abbiamo parlato di cura: di noi stesse, degli altri intorno a noi, delle relazioni tra le persone e tra le specie, del pianeta. “Più delicata / la nostra mano starà dentro il fare della vita. / Adesso lo sappiamo quanto è triste / stare lontani un metro”, concludeva la poesia.

Possiamo forse tracciare un primo bilancio di questo periodo pandemico, ancora lontano dall’essere concluso. Ne parleremo con Lea Melandri, teorica femminista e Marina Piazza, sociologa, che su questi temi hanno scritto e riflettuto. Coordina Grazia Longoni.

Per partecipare all’incontro, prenotarsi su www.casadonnemilano.it/prenotazioni-webinar.

Ecco il testo completo di “Nove marzo duemilaventi” di Mariangela Gualtieri

Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.
Adesso siamo a casa.
È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.
È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.
Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.
Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.
Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.
A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.