Sabato 26 aprile: il “laboratorio interculture” ha riaperto il portone verde della Casa dalle 15 alle 18 per il secondo “tè insieme”.
Un giorno di ponte tra le feste e molte ci avevano avvisato che non sarebbero potute venire. E che ci aspettavamo? Di essere in poche, naturalmente. Invece, eravamo ancora in tante, almeno una cinquantina tra chi si è fermata per un po’ e chi è restata. E sempre più donne migranti tra noi. Sono tornate Ioana, Felicitas, Otilia, Claudina e tante altre che, lavorando come badanti o colf, hanno libero solo il sabato pomeriggio e non possono venire al nostro laboratorio. Perché non facciamo questo “tè” due volte al mese? ci hanno chiesto, mentre insieme apparecchiavamo la tavola con dolci, torte, bibite, vino, e riso chaufa portato da Brigitte.

Tra ordito e trama stiamo intrecciando i fili di…legami per una Casa che sia davvero di tutte. Piano piano, ovviamente, con tutto il tempo che ci vuole, come nel tessere una tela. E se la metafora  è abusata, è la metafora che parla di noi antiche tessitrici nei miti e nella storia.

Ecco i “fili” che abbiamo messo insieme nel pomeriggio.
Noi, fresche di “25 aprile” abbiamo cantato alcune canzoni di lotta, ma come rane gracchianti (tra risate e lazzi), mentre le donne ecuadoregne all’unisono e intonate una loro canzone sul senso della vita; quasi una ventina di noi hanno partecipato a una breve “esperienza di biodanza”, guidate da Mariateresa Oldani del gruppo “benessere e movimento”. “Conoscersi, incontrarsi non solo con le parole, ma anche con i gesti, il corpo gli sguardi”, avevamo detto preparando il programma di questo sabato. Infine Rosa dell’Ecuador ci ha raccontato la sua storia di sogni, delusioni, lutti e speranze che ci ha lasciato piene di emozioni e di domande.

Ed ecco i “fili” del nostro raccontarci a più voci:
“Sono qui, ancora a ripensare all’emozione dei volti, dei colori, del taglio degli occhi o delle espressioni di questo sabato. Libere prima in canti un po’ stonati e poi nell’esperienza di un muoversi ancora liberamente nella musica, in una breve sessione di “biodanza”, scrive Nicoletta Buonapace.
“E nell’incontrarsi degli ultimi minuti, mi commuove il contatto con Ioana, le mani che si stringono forte, reciprocamente, vicino al petto. Non so cosa mi commuove, forse l’intensità del sorriso o la limpidezza dello sguardo: qualcosa di certo mi tocca nel profondo. Il riverbero della storia che ci aveva raccontato il sabato precedente? Quell’aver attraversato la solitudine di chi è straniero ed essere poi giunta in un luogo dove incontrare altre donne? Può darsi. Certo è che in questo spazio di musica e corporeità, c’è qualcosa che attraversa tutte le frontiere e ci fa riconoscere nella nostra comune appartenenza al genere umano e al femminile, nel nostro coraggio, nella nostra vulnerabilità. Ancora qualcosa mi fa vibrare… gli occhi scuri e intensi di Felicitas, che mi ricordano misteriosamente quelli di una delle sorelle della mia nonna materna, che avevo conosciuto da piccola. Una mondina dell’Emilia, come quelle di “Sebben che siamo donne” che abbiamo cantato a inizio pomeriggio, con tutta la bella luce d i una giornata quasi estiva che entrava nella stanza. E in lei rivedo la stessa espressione timida, la stessa faccia da contadina… E a un certo punto, diventa facile scambiarsi un abbraccio ed io sono un po’ spaesata, perché rispondo a ogni abbraccio senza sapere neanche bene come. Normalmente un abbraccio è un gesto intimo e si scambia dopo molto tempo e molta conoscenza e molta fiducia, ma accade e forse anche questo mi commuove, perché c’è una generosità e un conforto e un’allegria che aleggiano su di noi, sorprese di noi stesse e delle altre. Così ricordo anche lo sguardo intenso e serio di Raffaella che vede la mia commozione, ma che conserva il suo segreto. E ognuna di noi si muove in modo unico e singolare, con il suo corpo, la sua storia, il suo sorriso, la sua gioia, la sua malinconia e dopo l’incontro, c’è come la celebrazione di quanto avvenuto, in un girotondo dai movimenti imprevedibili alla fine del quale si esplode finalmente in un applauso liberatorio”.
E Carmen Gulap aggiunge: “Sono sempre stata affascinata dalle parole. Da tutte quelle parole ben dette che una volta sentite, diresti: non si sarebbe trovato modo migliore! Cosa abbiamo detto bene allora sabato, nel nostro gruppo? Che nel viaggio portiamo sempre con noi ciò che ci rappresenta, come i colori e i dipinti di Rosa, messi con cura nella sua unica valigia da emigrata. Che nel lungo cammino che ci aspetta all’arrivo nella nuova terra, ci sono sofferenza, molta incomprensione, perdite e lutti. Che si devono prendere decisioni importanti che ci cambiano definitivamente e ci fanno credere che possiamo diventare persone migliori, donne più forti, più consapevoli. E come le abbiamo dette queste parole? Con la tranquillità che anche le cose più intime, condivise con le altre, saranno custodite come doni preziosi, con la fiducia che chi ci sta accanto capisce e non giudica e anche con il silenzio nel movimento di “biodanza”.

Anche questo sabato abbiamo aperto la serratura della Casa con le nostre chiavi, certo. Ma abbiamo trovato anche chiavi per aprire altre serrature che schiudono mondi, che aprono all‘incontro tra donne diverse. Attraverso le parole dette o non dette. Abbiamo aperto una Casa come “stato d’animo”.

Carmen, Francesca e Nicoletta del “laboratorio interculture”