di Tina Faglia.

Il rapporto tra linguaggio e realtà è da sempre un tema su cui i filosofi si sono interrogati a lungo e a tal riguardo le opinioni sono differenti. Io intendo qui considerare come e perché le parole possono diventare linguaggio tossico e avere un peso nella co-costruzione di stereotipi e pregiudizi che si traducono in realtà, in quanto oggetto condiviso.

Le parole non nascono tossiche ma lo diventano e poi vengono usate in modo tossico. Aristotele diceva che le parole sono dei suoni che diventano linguaggio quando attribuiamo loro un significato. Il linguaggio è per noi molto importante perché è lo strumento elettivo di comunicazione, e, siccome siamo esseri relazionali, esistiamo in quanto siamo in grado di comunicare con gli altri.

È nel rapporto con gli altri che, comunicando, costruiamo la nostra specificità individuale e il nostro “essere sociale”. Inoltre la relazione è uno spazio di comunicazione attraverso il quale co-costruiamo la realtà con i suoi stereotipi e i suoi pregiudizi, compresi quelli che riguardano le donne (nell’immagine un lavoro di studenti nell’ambito della campagna Digit.ALL contro il discorso d’odio).

Pensate per esempio alla diversa realtà che oggi pro-vax e no-vax costruiscono rispetto alla pandemia proprio partendo da comunicazioni diverse: pensate ai pregiudizi che circolano intorno alla pandemia e al vaccino e ai comportamenti diversi che derivano da questi pregiudizi. Nella parola tavolo per esempio non c’è nulla che abbia a che fare con un piano sostenuto da gambe, si tratta di una convenzione linguistica necessaria per poter comunicare, per poterci capire.

Ma la comunicazione riguarda anche l’esperienza che noi abbiamo della realtà in cui viviamo, a tutti i livelli: percettivo-conoscitivo-affettivo e comportamentale.

Per comunicare tutto questo, le parole da sole non bastano, abbiamo bisogno di una forma di comunicazione che, oltre a dare un nome agli oggetti, qualifichi l’esperienza che ne facciamo, attribuendo ad essa valenze positive o negative. Abbiamo bisogno, in altri termini, di un linguaggio che parli delle emozioni che accompagnano la percezione della realtà. Questo è il linguaggio analogico che è fatto di sguardi, toni diversi di voce, postura del corpo, smorfie, atteggiamenti, e cioè di quegli aspetti che, per analogia, fanno riferimento ai sentimenti che accompagnano e danno un senso alla nostra esperienza. Per esempio un tono di voce aggressivo fa riferimento a un sentimento di rabbia.

È importante capire questo per comprendere perché parliamo di linguaggio tossico. Le stesse parole, lo stesso discorso cambiano significato secondo il modo in cui parliamo. Pensate a una parola come “p u t t a n a”: l’insieme di queste lettere non vuole dire nulla ma è una parola tossica per il significato che le attribuiamo.

Un altro aspetto importante per l’attribuzione di significato è il contesto e cioè la situazione sociale in cui si svolge la comunicazione.

Il contesto incide sul significato che diamo a un discorso a seconda che siamo al bar, a scuola, in una riunione di lavoro, in ambiti formali o informali. Pensate al peso diverso che può avere una parola tossica come “puttana” se pronunciata al bar, in televisione, se pronunciata da un politico, oppure in un contesto famigliare.

Nella nostra comunicazione questi due linguaggi coesistono e attraverso questi trasmettiamo non solo conoscenze ma anche pregiudizi e stereotipi. Come dicevo sopra, Il linguaggio, in quanto costruzione sociale della realtà, influisce pesantemente anche sui comportamenti sociali.

Pensiamo alla violenza agita contro gli ebrei a partire da un pregiudizio costruito attraverso una certa comunicazione; pensiamo alla caccia contro le cosiddette “streghe” a cui sono seguiti veri e propri femminicidi istituzionalizzati, in nome di Dio. Pensiamo a cosa è oggi il fenomeno del bullismo, al suo linguaggio e ai comportamenti che ne conseguono. L’elenco potrebbe continuare.

Fatte queste considerazioni, credo che si possa considerare il linguaggio come un termometro per misurare lo stato di salute della cultura di una comunità, di cui fanno parte le modalità dei rapporti esistenti tra i suoi membri.

Purtroppo, se consideriamo il linguaggio attualmente diffuso, ci troviamo a dover constatare un pericoloso stato di malattia sociale.

Il turpiloquio è entrato a fare parte del linguaggio quotidiano insieme a un elevato grado di aggressività. E nella lista delle parole più pesanti, più violente e aggressive, ci sono quelle che parlano dell’attrazione-odio per le donne, fondamentalmente per avvalorarne l’inferiorità rispetto all’uomo.

La diffusione del turpiloquio è stata anche favorita da sentenze della stessa Corte di Cassazione che è arrivata a ritenere non punibili certe offese verbali nei confronti di persone diverse dagli stereotipi condivisi (lo stesso “vaffa” non può più essere considerato un’ingiuria, come anche altre espressioni) in quanto espressioni che sono entrate a fare parte del linguaggio comune. Purtroppo!

Questo ha significato lo sdoganamento istituzionale di un linguaggio aggressivo e denigratorio che incita all’odio e alla violenza, a comportamenti aggressivi e violenti.

L’idea poi, diffusa tra i nostri politici, che usare un linguaggio triviale susciti simpatia, senso di vicinanza anche alle persone più semplici, e quindi aumenti il consenso, ha portato a un degrado culturale inarrestabile.

Cito a tal proposito la violenza contro Cécile Kyenge da parte di persone appartenenti ad alti livelli istituzionali. E a seguire, a cascata, tutto quanto è stato scritto nel web contro Laura Boldrini che ha avuto il torto di essere donna e ricoprire una carica istituzionale, una carica di potere da sempre appannaggio esclusivo degli uomini… e questo sembra essere insopportabile!

Anche il linguaggio sessista, profondamente volgare e aggressivo, ormai è pienamente accettato. È un linguaggio che fa riferimento diretto a comportamenti violenti contro le donne, con un intento denigratorio, umiliante, che ferisce a tutti i livelli.

La donna è ridotta a corpo, e ulteriormente ridotta a parti di corpo, pensata come un oggetto da usare a proprio piacimento con l’intento non nascosto di colpire e ferire, un oggetto su cui esercitare pieno possesso nei modi più svariati.

Per non parlare del corpo della donna come oggetto di scambio: in ambito politico il corpo delle donne è diventato addirittura una sorta di tangente; mi riferisco alle ben note “escort”.

Sembra di assistere a un incremento inarrestabile della pornolalia, una patologia che porta a usare un linguaggio osceno, in modo compulsivo. E mi sembra significativo che l’oggetto preferito sia il corpo femminile e la sessualità femminile.

Il tutto in parallelo a un movimento fortemente evolutivo delle donne che, grazie a una sempre maggior consapevolezza di una cultura patriarcale che le vuole sottomesse all’uomo, subalterne, si sono battute per il riconoscimento di diritti che le rende, io dico, un po’ più persone e un po’ meno “femmine”. Da riflettere sul parallelismo di questi fenomeni!

Ormai l’insulto e il linguaggio sessista abitano anche in famiglia, anche nelle scuole e purtroppo questo linguaggio raggiunge anche i più giovani, i bambini stessi. E questo in virtù del fatto che, anche se il significato di queste parole tossiche è sconosciuto, il bambino sa, in virtù del modo in cui sono pronunciate (analogico) che quelle parole descrivono qualcosa di spregevole e offensivo e quindi, quando vuole offendere, usa quelle parole.

Ecco perché parlo di linguaggio analogico: le parole tossiche sono tali in quanto veicolano sentimenti di odio, disprezzo, denigrazione. Sono parole violente che incitano alla violenza. Le parole tossiche sono tali in quanto veicolano sentimenti, atteggiamenti, rappresentazioni di comportamenti, connotati da grande aggressività. Difficile proferire un insulto senza un tono aggressivo/ denigratorio, così come è difficile esprimere un sentimento positivo con un tono aggressivo.

Come dicevo, è il modo che conferisce “significato” e grazie alla reiterazione, nelle parole tossiche, parola e significato diventano tutt’uno. Sarà difficile pronunciare parole come: puttana-baldracca-troia – l’elenco è infinito – con affetto e rispetto.

Vorrei aggiungere un’altra considerazione.

Io penso che la diffusione sempre più di moda della pornografia – intesa come esibizione e messa in scena di ciò che normalmente appartiene alla sfera intima, e  non mi riferisco solo ad aspetti attinenti alla sessualità, ma anche a delicate vicende relazionali, famigliari con tutto il corredo affettivo/ sentimentale-emotivo, (sto pensando a una trasmissione come quella della De Filippi per esempio, Facebook- Instagram ecc…) possa favorire un atteggiamento voyeuristico, una connivenza dello spettatore con l’esibizionismo stesso.

Vedo un nesso tra questo e la caduta, la perdita del sentimento del pudore da un lato e il sentimento della vergogna, sentimenti che sono un baluardo della convivenza civile in quanto pongono dei limiti a un senso di libertà malinteso, lo stesso senso di libertà che molti vogliono significare con l’uso fuori controllo del turpiloquio, del linguaggio triviale.

Purtroppo, il web da questo punto di vista non aiuta.

La maleducazione, la volgarità, l’odio, grazie al web viaggiano a una velocità e con un grado di diffusione mai visto prima, direi anche fuori controllo. Soggetti protetti dall’anonimato, si scatenano non solo ma anche perché chi insulta è nascosto mentre la vittima viene esposta a un vero linciaggio virtuale.

Quello che accade, a mio modo di vedere, è che il virtuale cancella quel prezioso filtro – quello spazio tra emozione e messa in atto – con un semplice clic. Con il venir meno della vergogna e quindi del senso di colpa cade anche l’autocensura: non ci sono conseguenze per le proprie azioni. E così viene meno anche il senso di responsabilità!

È un equivoco grosso e grossolano quello che pone un’equivalenza tra libertà di opinione e libertà di offendere.

Le offese riguardano, più o meno sempre, persone considerate diverse, che non accettano di essere fissate dentro stereotipi culturali, e tra queste ci sono le donne, nei confronti delle quali il conflitto esplode in modo sempre più drammatico quanto più si rifiutano di dover corrispondere a un’immagine stereotipata che le vuole passive, ossequenti, sottomesse. Significativo che troviamo un linguaggio offensivo contro le donne, anche laddove il riferimento è all’atto sessuale. Qui il riferimento all’aspetto relazionale è totalmente assente: parole come fottere-trombare-chiavare-scopare sono termini che parlano di una relazione a senso unico e cioè una relazione di dominio versus sottomissione, una vera e propria negazione patologica della reciprocità.

Da ultimo vorrei ricordare la sorte del decreto Zan accompagnata dallo spettacolo indecoroso dell’esultanza di chi ha avuto la meglio contro la cultura del rispetto e della convivenza democratica e civile.