Mentre si avvicina il 28 settembre – Giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro – e mentre in tutto il mondo crescono gli scioperi per il clima, ho voluto ricordare un pezzo della storia dell’ICMESA di Seveso, della contaminazione da diossina nel ’76 e degli effetti di tutto questo sui corpi delle donne.

Molto spesso, infatti, le donne sono in prima file nelle lotte ecologiche e il loro ruolo viene letto come un’estensione della maternità e della capacità di cura, riportandole a una dimensione naturale. In realtà, come la vicenda di Seveso dimostra, i corpi delle donne sono da sempre dei corpi politici, pubblici, esposti non soltanto ai cambiamenti ambientali, ma anche alle scelte politiche e alle gerarchie sociali.

Durante il disastro della diossina, infatti, l’opinione ha quasi da subito spostato il biasimo dalla multinazionale colpevole dell’inquinamento, alle donne che volevano abortire perché contaminate.

seveso

I corpi delle donne sono diventati un terreno di uno scontro giocato tra mancanza di informazioni e colpevolizzazione. Ma anche di resistenze e consapevolezza, come quella messa in campo da Laura Conti, che mi sembra importante ricordare anche per questa nuova stagione di lotte per l’ambiente, e dei comitati popolari che hanno saputo sovvertire i rapporti di potere riappropriandosi di sapere e conoscenza.

Infine, la vicenda di Seveso, mostra come i disastri ecologici rafforzino spesso le gerarchie sociali e i privilegi. E se il 28 agosto 1976, il presidente del colosso chimico Adolf W. Jann potè dichiarare spudoratamente a proposito di Seveso che «Si sa che gli italiani e specialmente le donne si lamentano sempre; tutti sanno che gli italiani sono un popolo estremamente emotivo. (…) Capitalismo vuol dire progresso e il progresso può portare talvolta a qualche inconveniente (…)», allora vale la pena ricordare che per salvare la natura non possiamo che cambiare la società, non tanto per il futuro, ma per il nostro presente.