Il 5 marzo 2024 è giunta al valico di Rafah (Gaza) una delegazione organizzata da AOI in collaborazione con Amnesty International Italia, ARCI e Assopace Palestina. Tra i partecipanti anche Ilaria Masieri di Terre des Hommes Italia che ci ha mandato la testimonianza che qui di seguito pubblichiamo.

“Non troviamo più aggettivi per descrivere cosa sta succedendo nella Striscia di Gaza” ci ha detto il Direttore regionale dell’OMS. Catastrofe, apocalisse, niente restituisce l’orrore di quello che Israele sta imponendo a milioni di persone dentro la Striscia.

Il valico di Rafah segna il confine brevissimo tra la vita e la morte. Da una parte chi ha bisogno urgentissimo di cure, cibo, acqua, tende, coperte, ambulanze, dall’altra parte i farmaci, i pacchi alimentari, gli equipaggiamenti per costruire ripari minimamente dignitosi, le ambulanze impolverate dall’attesa.

Nel magazzino dove la Mezzaluna Rossa Egiziana custodisce i beni che vengono rifiutati ai controlli israeliani abbiamo visto bombole di ossigeno, incubatrici, stampelle, generatori e frigoriferi alimentati da pannelli solari, pasticche e macchinari per la potabilizzazione dell’acqua e molto, molto altro. Ci hanno detto che alcuni giorni fa un intero camion è stato rimandato indietro perché conteneva merendine al cioccolato, considerate beni di lusso, incompatibili con l’assistenza umanitaria. Negli ultimi giorni stanno tornando indietro anche i datteri. A giorni inizia il Ramadan, e il dattero, insieme ad un bicchiere di acqua, è tradizionalmente il gesto con cui il digiuno viene rotto al tramonto del sole.

Per usare le parole di una delle esperte di diritto internazionale che erano con noi, abbiamo visto quanto impegno e sadica precisione siano stati impiegati per costruire un sistema pensato per non avere alcuna possibilità di funzionare.

Abbiamo visto il muro lunghissimo che l’Egitto sta costruendo, e i campi di accoglienza in preparazione, se dovesse succedere il peggio. Abbiamo visto le persone che lavorano al valico stravolte da un impegno incessante che non può bastare. Siamo stati lì alcune ore, e abbiamo visto pochissimi camion partire, e non alla volta di Gaza ma verso i controlli israeliani, a Nizana o Karem abu Salem, da dove potrebbero dover tornare indietro al magazzino degli oggetti rifiutati. Non abbiamo visto neppure una persona entrare o uscire.

Sappiamo fin troppo bene che tutto questo non è iniziato il 7 ottobre. Che la punizione collettiva sulla popolazione di Gaza è iniziata quasi 17 anni fa, l’occupazione militare e la colonizzazione dei territori da quasi 57 anni, il progetto di espulsione e sostituzione dei palestinesi con gli ebrei israeliani da ben prima della Nakba.

Sappiamo anche molto bene che la ferocia di Israele è il frutto della impunità che da decenni gli è garantita soprattutto dall’Occidente, un “assegno in bianco” come ci hanno ricordato vari interlocutori palestinesi incontrati in questi giorni.

Sappiamo che non può esistere una “occupazione buona”, una “colonizzazione gentile”, o, come lo ha chiamato Ilan Pappe a Firenze, un “genocidio democratico”. Lo abbiamo detto e denunciato da sempre, che è la coazione a ripetere che spinge l’asticella dell’orrore sempre più alto e non chi è al governo in Israele (o che le due cose sono inestricabilmente legate, come volete voi). Ma anche noi, operatori e operatrici umanitari, dobbiamo continuare a chiederci se abbiamo fatto abbastanza.

“Se Israele volesse, potrebbe far entrare domani tutto quello che serve”, hanno ribadito più e più volte le persone con cui abbiamo parlato. Due giorni fa erano 1.500 i camion pronti ad entrare per andare ai controlli, e sulla strada che dal canale di Suez porta ad Al Arish ce ne sono tantissimi altri incolonnati in attesa che si liberino i posti nei parcheggi in prossimità del valico. Tutto questo, ovviamente, ha un costo enorme, non solo in termini di vite che questi aiuti potrebbero salvare, e mette anche a rischio i materiali, esposti al caldo e alle intemperie che rischiano di renderli inutilizzabili.

Lo sapevamo, lo gridavamo, lo denunciavamo, e non da ora – da decenni. In questi giorni siamo riusciti a portare lì parlamentari e giornalisti, a vedere con i loro occhi, e a guardare i Palestinesi di Gaza – quei pochi che sono riusciti a raggiungere l’Egitto – negli occhi mentre ascoltavano, finalmente, la verità.

Un sistema sanitario che è stato deliberatamente distrutto, insieme a tutte le infrastrutture, le cisterne, gli impianti di desalinizzazione, i mulini, le panetterie, tutte le università, le scuole, gli ambulatori, le ambulanze, il patrimonio culturale… un attacco che prende di mira i civili, utilizzando non solo le bombe e l’artiglieria, ma la fame, la sete, la promiscuità, l’assenza di cure e di carburante come armi di guerra. E che le usa sempre di più via via che cresce la consapevolezza, e che aumentano le pressioni internazionali perché Israele rispetti i propri obblighi sia di parte in conflitto che di potenza occupante.

Migliaia di persone che sono morte sotto le macerie delle loro case, e che non hanno potuto essere soccorse, forse salvate, almeno sepolte. Decine e decine di operatori e operatrici delle squadre di soccorso medico uccisi mentre cercavano di raggiungere i feriti, e dopo aver comunicato all’esercito israeliano dove stavano andando e averne ottenuto l’approvazione. Moltissimi altri che sono stati arrestati, torturati, abusati anche sessualmente, per estorcere una confessione che avallasse la narrazione israeliana.

Donna-di-Gaza-con-i-due-figli-morti

Donna palestinese con i suoi due bambini morti.

Centinaia di migliaia di persone, soprattutto nel Nord, che sopravvivono nutrendosi di cibo per animali ed erbe selvatiche. Sono già almeno 10 i bambini e le bambine morti di stenti, ma il numero non è calcolabile, perché nessuna agenzia riesce ad avere accesso a oltre metà della Striscia, a causa delle truppe israeliane che vi stazionano e che sparano a qualsiasi cosa si muova, comprese – lo sappiamo – le persone che cercano di accaparrarsi i pochissimi aiuti che riescono ad avvicinarsi. Se anche arrivasse il cessate il fuoco in questo istante, ci sarebbero almeno altre 6.000 vittime, persone già ferite che non hanno possibilità di sopravvivere, malati che non hanno ricevuto cure (come malati oncologici, malati cronici, persone anziane), persone che hanno contratto o stanno per contrarre malattie causate dalle condizioni di vita a cui sono costrette da mesi.

E poi ci sono tutte le ferite che non si vedono. L’orrore di 5 mesi di incessanti bombardamenti, la perdita di persone care, della casa, del lavoro, un anno scolastico praticamente mai iniziato, milioni di persone che da mesi non hanno 5 minuti di privacy, una doccia calda, un momento di riposo, e devono anche sentirsi “fortunate” perché vive. Almeno fino ad ora.

La carovana solidale Rafah – Gaza oltre il confine è stata la delegazione più numerosa a raggiungere Rafah dal 7 ottobre. Erano presenti le ONG di AOI, l’ARCI, Assopace, esperti ed esperte di diritto internazionale, 14 parlamentari e molti giornalisti e giornaliste. Ci siamo riusciti perché ci credevamo fortemente, e anche grazie all’indispensabile supporto della nostra Ambasciata in Egitto e dell’Ambasciata egiziana a Roma.

Non è un risultato, non era l’obiettivo, è solo un piccolo passo – necessario – di un percorso lungo che non abbiamo alcuna intenzione di fermare qui.

Cosa ci hanno chiesto tutte le persone, le organizzazioni palestinesi e internazionali che abbiamo incontrato? Di pretendere un cessate il fuoco immediato e permanente, condizione imprescindibile per portare dentro la Striscia un’assistenza umanitaria degna di questo nome. Secondo uno studio della John Hopkins University e della London School of Hygene and Tropical Desease, senza un cessate il fuoco, entro 6 mesi 85.000 persone moriranno nella Striscia, uccise dalle ferite e dagli attacchi ma anche da malattie assolutamente curabili.

Ci hanno chiesto di garantire accountability, di smettere di credere a tutto quello che Israele afferma senza fare neanche lo sforzo di produrre uno straccio di prova, di smettere di fornire armi ad Israele, di aumentare – non sospendere! – i fondi ad UNRWA, di fornire assistenza umanitaria in modo consono, dignitoso, e capillare. Via terra, come è naturale che sia, aprendo tutti i valichi. E poi di lavorare davvero per la fine dell’occupazione, per lo smantellamento del sistema di colonizzazione, per una soluzione giusta e duratura basata sulla giustizia e sul diritto internazionale, non sulla legge del più forte.

Il vicedirettore della Mezzaluna Rossa palestinese ha concluso così l’ultimo incontro del viaggio: “Noi siamo un popolo resiliente, capace di rimettersi in piedi dopo ogni difficoltà. Abbiamo solo bisogno del vostro supporto e della vostra solidarietà. Garantiteci il vostro supporto e la vostra solidarietà, e noi ci rimetteremo in piedi e ricostruiremo la Striscia di Gaza”.

Io posso solo dire grazie a tutte e tutti i miei compagni di viaggio, a tutte le persone che abbiamo incontrato, alla Palestina e ai Palestinesi, che continuano ad insegnarci la vita, la dignità, e che ancora, nonostante tutto, ci guardano negli occhi senza odio. Non lo so come fanno, ma difendere loro oggi significa salvare noi, tutti noi, l’umanità intera.