di Antonella Polisena.

È il 28 Settembre 2020, accade su Facebook: Marta Loi pubblica un post in cui porta alla luce dei social e all’attenzione dei più la pratica poco conosciuta ma non celata della sepoltura dei feti (o “prodotti del concepimento”) nei “Giardini degli angeli”.

“Le immagini sono più potenti del testo” dice. E così è.
La lapide a forma di croce porta una data ma, soprattutto, porta il suo nome.

La pratica della sepoltura dei feti o dei “prodotti del concepimento” (così vengono legislativamente distinti a seconda che abbiano superato o meno la ventesima settimana di età) ha radici più profonde di quanto il recente clamore ci potrebbe far credere.

Ne rintracciamo i primi segni nel 1999, con la fondazione di “Difendere la vita con Maria” associazione fondamentalista cattolica il cui scopo – come viene dichiarato dall’attuale presidente don Maurizio Gagliardini – è “promuovere la cultura della vita e i diritti del concepito anche concedendo seppellimento ai bambini non nati come atto di pietà”.

Ad essa ne sono seguite molte altre: l’Armata Bianca, Difendiamo i nostri figli e altri nomi minori che spiccano tra i ferventi partecipanti del Congresso di Verona.

Per quanto al clamore e alle prime pagine dei giornali che ne hanno dato notizia sia attribuibile il merito di aver riportato in auge argomenti che, pur nella loro importanza, subiscono il saliscendi del cosiddetto “hype”, dell’entusiasmo del lettore, ad essi va tuttavia il biasimo di poca chiarezza.

Ma soffermiamoci per un chiarimento sul dettato normativo.
Pratica poco conosciuta, ma non celata – dicevamo.

Infatti trova spazio e – per questo – giustificazione sia nella circolare emessa dall’allora ministro della Sanità, Carlo Donat-Cattin secondo cui «Si ritiene che il seppellimento debba di regola avvenire anche in assenza di detta richiesta (quella dei genitori dei prodotti di concepimento abortivi di presunta età inferiore alle venti settimane: ndrsia nel capo I, art.7 del Regolamento della Polizia mortuaria del 1990.

Ma soprattutto è il Regolamento Regionale 6 febbraio 2007 n.1 ad aver introdotto “Per i prodotti abortivi di presunta età di gestazione dalle venti alle ventotto settimane complete e per i feti che abbiano presumibilmente compiuto ventotto settimane di età intrauterina, nonché per i prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle venti settimane, la direzione sanitaria informa i genitori della possibilità di richiedere la sepoltura”.

Da questo momento in poi, sul modulo di consenso sia dell’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG) che di Aborto Terapeutico, in alcuni ospedali è presente l’opzione di seppellimento del prodotto del concepimento. Differenza, quella tra IVG e AT, fondamentale.

Infatti la prima avviene nei primi 90 giorni di gravidanza (secondo le condizione stabilite dall’art.4 l.n. 194/1978), mentre l’Aborto Terapeutico avviene oltre il termine dei tre mesi e vi si può ricorrere, secondo l’art.6 l.n. 194/1978 qualora il pericolo per la donna sia grave e causato da accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro.

È in questo secondo caso che rientra la vicenda di Marta Loi la quale aveva proceduto con una gravidanza desiderata e perdendo tragicamente un bambino da lei voluto.

Da queste precisazioni necessarie, il fulcro del dibattito va certamente ricalibrato non più sulla capacità di autodeterminarsi della donna (seppur argomento sempre rilevante), in quanto Marta Loi e, in generale, tutte coloro le quali ricorrono all’Aborto terapeutico hanno desiderato quella gravidanza e poi vi hanno rinunciato per una grave malattia del nascituro, ma su una grave violazione della privacy, del principio di laicità dello Stato e per l’abuso di simboli religiosi.

Quello che più ferisce e che diventa sempre più chiaro è come questa intrusione – così profonda da configurare una violenza – nella scelta più che mai personale e dolorosa di una donna possa essere istituzionalmente giustificata sia tramite una vaghezza della norma, sia da una lacuna delle pratiche assistenziali da parte dello Stato che si traduce in un valzer di due passi avanti e tre indietro.

Nonostante quello odierno della giurisprudenza sia un approccio informativo-educativo di alleanza rispetto alla madre del concepito testimoniato dal requisito procedurale del colloquio in consultorio, previsto dall’art.5 l.194/1978 nel caso di Interruzione Volontaria di Gravidanza, nulla è previsto per le donne costrette a terminare la gestazione di una gravidanza voluta le quali dovranno affrontare un vero e proprio lutto.

Anche in questi spiragli si annidano le associazioni cattoliche che, a loro volta, propongono un aiuto a coloro le quali valutano l’opzione abortiva, che in realtà funge da opera di convincimento e non permette alla persona “irretita” di valutare lucidamente le proprie opzioni.

Per quanto le istituzioni permetteranno questi interventi trasversali, glisseranno su queste negligenze che minimizzano e depauperare la legge 194?

Ad oggi, per fortuna, qualcosa sembra muoversi.
Il Garante per la protezione dei dati personali ha annunciato  l’apertura di un’istruttoria, l’associazione “Differenza donna” sta organizzando una class action e i radicali, sensibili dal 2012 a questo tema, hanno presentato interrogazioni parlamentari circa la questione.

Speriamo per il meglio.