Oggi recensiamo un testo saggistico che ribalta, sulla base di ricerche molto rigorose, gli stereotipi sulle donne e sulle relazioni tra i generi nella preistoria: Marylène Patou-Mathis, La preistoria è donna. Una storia dellinvisibilità delle donne (Firenze, Giunti, 2021).

In base alla discussione fatta nel gruppo di lettura il 24 febbraio, riproponiamo in modo più approfondito l’autobiografia di Maryse Condé, La vita senza fard (Milano, La Tartaruga, 2019): la prima parte della sua esistenza, raccontata senza nascondere o imbellettare nulla della sua formazione avventurosa e multiculturale, generosa e imperfetta, di donna e di scrittrice.

Infine un classico senza tempo che commuove e fa riflettere sulla guerra, sulla violenza e sul potere che opprime gli umili, La Storia di Elsa Morante (Torino, Einaudi, 1974). il romanzo narra le vite di una madre e dei suoi due figli negli anni  della seconda guerra mondiale e immediatamente successivi, nei quartieri popolari di Roma.

Vi invitiamo di nuovo a mandare i vostri contributi all’indirizzo librarsi@casadonnemilano.it e ad informarvi tramite la Newsletter della Casa sulle attività mensili del gruppo di lettura.

Marylène Patou-Mathis
La preistoria è donna. Una storia dellinvisibilità delle donne
(traduzione italiana di Berenice Capatti), Firenze, Giunti, 2021, disponibile anche in ebook

L’autrice è una  studiosa francese di preistoria, specializzata nello studio dei Neanderthal, direttrice del Dipartimento Uomo e Ambiente del Museo di Storia Naturale a Parigi, nota a livello internazionale per le sue ricerche.

Il suo libro recente mette in discussione con profondità e competenza gli stereotipi patriarcali che hanno informato fino a pochi decenni fa le ricerche storiche, antropologiche e archeologiche, in particolare per quanto riguarda la preistoria.

La copertina di questo libro stimolante allude alle “mani negative” trovate in tante grotte preistoriche di vari continenti, espressioni simboliche, artistiche  e rituali di gruppi umani antichissimi ( 25.000 anni fa circa).  Posando una mano sulla parete di roccia e poi spruzzandoci sopra con  la bocca pigmenti naturali, si ottenevano con la tecnica della “sagoma forata” immagini negative di mani che spiccano sullo sfondo colorato.

Gli studi più recenti  confermano che queste mani, nelle grotte preistoriche francesi e spagnole, risultano in grande maggioranza opera di donne.

Quindi le donne della preistoria non erano affatto escluse da produzioni artistiche e simboliche, anzi ne erano probabilmente le protagoniste. Lo stereotipo che qualifica come “maschili” le attività creative  degli esseri umani durante della preistoria non è che una rozza proiezione della mentalità patriarcale che ancora informa tanti ricercatori.

Approssimative analisi sulle dimensioni delle ossa avevano portato a identificare il genere maschile o femminile degli scheletri preistorici in modo contrario a ciò che hanno invece rivelato ricerche più raffinate. E sul genere di parecchi  scheletri restano dei dubbi che non consentono di trarre conclusioni statistiche.

“In base a studi sugli scheletri umani fossili, si sono osservati segni di violenza solo su alcuni individui; quindi si può ragionevolmente pensare che non ci siano state guerre in senso stretto nel corso del Paleolitico […]. Nella maggior parte dei casi di violenza accertata, le ferite risultano cicatrizzate; per cui questi individui non sono stati uccisi, ma, anzi, curati. Si è giunti alla conclusione che in quel periodo gli uomini si prendevano cura dei malati e dei feriti, e che un disabile fisico o mentale, anche dalla nascita, non veniva escluso e aveva un posto in seno alla comunità” (pp. 18-19).

“Nelle società di cacciatori/raccoglitori le donne partecipavano alla caccia in molti modi. Per procedere alla cattura della selvaggina si servivano di armi contundenti –  bastoni per scavare, randelli e mazze – o trappole: affumicamento della tana, cappi. Durante le cacce collettive spingevano le grandi prede; azione che richiedeva spesso di correre molto più dei tiratori appostati […]. Non si può escludere che in certe società del Paleolitico europeo le donne partecipassero a ogni tappa della caccia: reperimento e decodificazione delle tracce di selvaggina, elaborazione delle strategie di caccia, perfino partecipazione in quanto tiratrici” (pp.135-137).

“Camminatrici instancabili, muscolose e capaci. Diversi studi paleoantropologici dimostrano che le donne del Paleolitico erano molto robuste, anche se avevano in media qualche centimetro e chilo in meno degli uomini […].  Presso i popoli di cacciatori-raccoglitori nomadi attuali, le donne, anche incinte o accompagnate da bambini molto piccoli (in braccio o sulla schiena), percorrono le stesse distanze degli uomini” (pp.130-131).

L’evoluzione storica e le varie società umane hanno modellato anche i corpi maschili e femminili, in una stretta interrelazione tra dati biologici e culturali. Del resto, vediamo anche oggi che i corpi possono modificarsi profondamente al variare dell’alimentazione, delle diverse forme di allenamento, del tipo di attività che si svolge. E alcune di queste modifiche si trasmettono per via ereditaria.

Il libro mette in discussione molti luoghi comuni e invita anche a considerare in modo più ampio le possibili funzioni delle molte statuette femminili trovate nei siti del Paleolitico.

“Siccome le statuette furono scolpite nell’arco di oltre 25.000 anni in diverse società del Paleolitico superiore, non è possibile darne un’interpretazione unitaria. Probabilmente la loro funzione e significato cambiarono nel corso del tempo e dello spazio” (p. 109).

Non è detto, secondo l’autrice, che avessero sempre e tutte un significato religioso in senso stretto, cioè che fossero tutte immagini di dee.

Ma non è affatto escluso che almeno alcune lo fossero. Inoltre, molte ipotesi formulate su queste statuette fanno riferimento alla sfera del sacro e del rito, inteso in senso ampio: le si interpreta come  talismani o amuleti protettivi, figure di antenate, ex voto o offerte fatte ai defunti, immagini simboliche della  sessualità, della fecondità o della fertilità della terra.

In ogni caso, queste statuine potevano benissimo essere realizzate da donne.

“Alcune statuette, in particolare quelle romboidali, sarebbero state scolpite da donne incinte, sorta di autoritratti […]. Altre sarebbero amuleti protettivi indossati dalle donne al momento del parto, forse dopo averli scolpiti […]. Possiamo suggerire l’ipotesi che alcune di queste raffigurazioni di donne incinte o partorienti siano state realizzate da donne per le donne. Queste figure veicolerebbero l’importanza data dalla società alla riproduzione, alla nascita di un bambino portatore della continuità del clan, del villaggio” (pp. 123-124, passim).  Ma non sempre, nella preistoria, la figura della donna coincide con quella della madre.

“Attualmente non ci sono argomenti archeologici a favore dell’ipotesi che nel Paleolitico le donne  avessero uno status sociale inferiore a quello degli uomini” (p.146).

Le donne del Paleolitico “partecipando a molte attività avevano un reale ruolo economico e possedevano un rango sociale equivalente a quello degli uomini, forse persino più elevato nella sfera domestica e simbolica, considerato il posto centrale che hanno le raffigurazioni femminili nell’arte paleolitica. Si può quindi ragionevolmente pensare che queste società fossero matrilineari o che le relazioni tra i sessi fossero equilibrate” (p.153).

L’autrice, al termine di una ricognizione attenta delle ricerche più recenti, conferma: “Il patriarcato non è ‘naturale’. È un modo di pensare e di agire che instaura un ordine delle cose fondato sulla dualità dei sessi e la gerarchia tra di loro. Sono esistite, ed esistono tuttora, delle società matriarcali. Non sono lo specchio invertito delle società patriarcali, che riproducono il dominio di un sesso sull’altro, ma società con una reale uguaglianza tra i sessi” (pp. 272-273).

Vittoria Longoni


Maryse Condé
La vita senza fard
Milano, La Tartaruga, 2019

Nuda vita

Scrittrice prolifica e potente, Maryse Condé, una delle scrittrici più note al mondo, racconta in questo libro la sua autobiografia nel periodo francese e soprattutto africano.

Nata nel 1937 a Guadalupe, provincia d’oltremare della Francia, da “negri di livello” come si definivano i suoi genitori, vissuta nel privilegio e nell’inconsapevolezza, inizia con i suoi trasferimenti in Francia e poi in Africa, una discesa agli inferi terribile eppure indispensabile alla sua crescita emotiva e intellettuale.

Per ovvie ragioni c’è un forte legame tra gli antillani e la Francia, considerata la loro patria culturale e Maryse si trasferisce adolescente a Parigi per completare gli studi.

L’autobiografia, a partire dal titolo, dichiara chiaramente il suo intento: vuole essere una narrazione di sé all’insegna della verità per quanto questa possa essere raggiungibile, senza imbellettamenti, senza nascondere comportamenti e azioni sbagliate e riprovevoli.

Fedele a questo intento, l’autrice racconta i suoi disordini emotivi, le sue contraddizioni, le sofferenze che si infligge e che infligge. Rimasta incinta a Parigi di un haitiano che la lascia, ha un primo figlio, Denis, che abbandona momentaneamente in un periodo drammatico della sua vita. Successivamente sposa più per calcolo che per amore Condé, attore squattrinato originario della Guinea, e parte col figlio, senza marito, nuovamente incinta per il suo primo viaggio in Africa.

Tante Afriche

L’Africa è la meta cercata: come molti antillani Maryse Condé la vive come la grande madre originaria. La realtà la smentirà ben presto: la Costa d’Avorio in cui approda è un paese povero, di profonda miseria, violenza e razzismi multipli.

Tuttavia l’Africa rappresenterà il luogo cruciale della sua formazione, tra vicende personali e professionali estreme.

Dalla Costa d’Avorio alla Guinea, al Ghana e al Senegal in un andirivieni frenetico e talvolta drammatico, tra derive sentimentali e maternità non cercate (alla fine i figli saranno quattro), professioni altalenanti (insegnante, traduttrice, giornalista) Maryse Condé matura compie la sua formazione emotiva e intellettuale in un’Africa che sta vivendo, pur nelle contraddizioni, uno dei momenti più alti della sua storia.

Sono gli anni cinquanta e sessanta della decolonizzazione, delle rivoluzioni socialiste, della riscoperta  delle proprie tradizioni attraverso le ideologie della negritudine, degli eroi nazionali. Tuttavia questi eroi, emblemi dell’indipendentismo, spesso si trasformano in dittatori e la vagheggiata eguaglianza in nuove forme di ingiustizia, privilegio, razzismo.

 Conoscere, comprendere, cambiare

Maryse Condé mantiene, nel suo caos vitale, una direzione chiara: la volontà di costruirsi un pensiero autonomo, senza cedere alle lusinghe degli entusiasmi e delle derive collettive, anche di chi le è vicino, attraverso l’osservazione e lo studio che fanno di lei un’acuta intellettuale.

E sia pure attraverso ferite profonde, riesce anche a trovare un equilibrio rispetto ai suoi rapporti di volta in volta passionali e ciechi, di opportunismo e sudditanza, di masochismo e violenza con tutti gli uomini che incontra.

Negli uomini africani che lei incontra la mentalità patriarcale scivola facilmente in quella della violenza e dello stupro.

Nonostante tutto, alla fine di questo capitolo cruciale della sua autobiografia, Maryse Condé riconosce il debito immenso che ha con l’Africa e con questa fase della vita.

È come un viaggio dantesco da cui lei emerge in grado di prendere in mano la propria esistenza e di costruirsi anche come scrittrice nelle cui opere è fondamentale la sofferenza secolare di donne e uomini neri, meticci, mulatti oppressi dalla colonizzazione, dalla collocazione di classe e dal razzismo. Frantz Fanon e I dannati della terra diventano il suo vangelo culturale.

Pur non femminista, rappresenterà nei suoi libri (come in Tituba, strega nera di Salem) figure potenti e perseguitate di donne, sempre nere anche quando sono bianche. Dopo il periodo africano potrà sposare un uomo inglese, insegnare all’università, vivere negli Stati Uniti e tornare al suo luogo delle origini, La Guadalupe, battersi contro il razzismo, scrivere senza sosta per il resto della sua vita.

La verità di un libro sconvolgente, di una donna sola che non sa di essere forte ma che compie azioni sbalorditive, spostandosi da un paese all’altro dell’Africa, cambiando continuamente lavoro uomini e scenari, sicuramente madre largamente imperfetta ma che non abbandona mai del tutto i suoi figli, è riportata attraverso un stile asciutto, anch’esso “senza fard”, duro e impietoso verso se stessa e gli altri.

Tuttavia in mezzo al magma ci sono sempre vie di salvezza, le proprie energie profonde in primo luogo, ma anche un contesto che, nelle sue aspre contraddizioni, trova modi d’accoglienza, di solidarietà e d’amicizia. Mama Africa appunto.

Marilena Salvarezza


Elsa Morante
La Storia
Torino, Einaudi, 1974  (numerose ristampe e nuove edizioni)

La Storia con la S maiuscola è, come dice la frase posta dall’autrice in fondo alla copertina del libro, “uno scandalo che dura da diecimila anni”.

Lo scandalo è la successione di guerre, soprusi e violenze che contrassegna i secoli delle vicende umane codificate, è il potere che distrugge e opprime la grande massa delle persone.

Il romanzo é dedicato “all’analfabeta per cui scrivo”, analfabetismo dei popoli oppressi e delle giovani generazioni; a loro l’autrice intende donare parole, pensieri, figure e vicende narrate che aiutano a riconoscere la violenza incombente dei diversi poteri, e a contrastarla.

Il romanzo, pubblicato da subito in edizione economica per essere accessibile a tutti, ha un linguaggio volutamente semplice e propone temi ed emozioni universali.

Le vicende principali si sviluppano tra il 1941 e il 1947, gli anni del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra, nei quartieri popolari di Roma, e in particolare nel rione di San Lorenzo che viene distrutto dai bombardamenti.

Ogni capitolo riguarda un singolo anno di storia; all’inizio di ciascuno Morante delinea, in una breve rassegna dei principali fatti internazionali, il quadro planetario che fa da sfondo alle vicende degli ignari personaggi.

Protagonista è la maestra Ida Ramundo, vedova di origini proletarie, donna laboriosa e semplice, mite, priva di consapevolezza politica, soggetta a crisi epilettiche, carica di paure e sensi di vergogna, vittima di stupro da parte di un giovane soldato tedesco.

Da questa violenza fatta alla donna, prototipo di tutte le altre violenze e ripetuta brutalmente negli episodi della guerra, scaturisce il romanzo nelle sue articolazioni che compongono un vasto affresco popolare.

Accanto a Ida incontriamo i suoi due figli: Nino, nato dal  matrimonio, un ragazzo esuberante prima attratto inconsapevolmente dal fascismo e poi divenuto  partigiano, e Useppe, bambino straordinario e segnato dall’epilessia, nato dallo stupro che Ida ha subìto.

Tra gli sfollati di Pietralata e poi nelle borgate romane la piccola famiglia incontra Davide Segre, un giovane anarchico che tenta di mimetizzare la sua origine ebraica facendosi chiamare Carlo Vivaldi, anche lui partigiano. La guerra che irrompe nelle loro vite le stravolge e ne fa alcune delle molte vittime.

Coi loro occhi vediamo la tragiche vicende della seconda guerra mondiale, i bombardamenti, gli stupri, le deportazioni, le distruzioni, gli stermini, la miseria, la precarietà, la stentata sopravvivenza dei profughi ammassati nei campi, le diverse forme della Resistenza.

Ida, i suoi figli e David sopravvivono alla guerra, ma il conflitto lascia le sue tracce anche dopo la conclusione; non solo per  i ricordi e le ferite ancora impresse nelle menti e nei corpi, ma anche perché il potere tende a ricostituirsi subito in nuove forme e ad opprimere i più deboli.

Nel dopoguerra Nino e Davide non riescono a reinserirsi nella nuova società.

Nino, uscito dalla guerriglia resistenziale, si sente messo ai margini, non sopporta il nuovo governo che sembra non migliorare affatto la vita stentata dei poveri, si dà al contrabbando e muore in un incidente stradale.

Davide, sconvolto per la morte dei suoi familiari nei campi di concentramento, oppresso dalle difficoltà della vita, coinvolto nelle  violenze della guerra  e deluso nei propri ideali anarchici, si rifugia nella droga  e muore per un’overdose.

Il bambino Useppe, minato dall’epilessia e privo di cure adeguate, dopo anni di visioni ed esplorazioni infantili e di crisi  ricorrenti, muore a sei anni; la madre Ida impazzisce e termina la sua vita internata, inconsapevole, in un ospedale psichiatrico.

Lo spunto iniziale del romanzo infatti è partito da un fatto reale di cronaca avvenuto in un quartiere popolare di Roma: una madre delirante ritrovata dopo giorni di isolamento a vegliare un bambino morto, con loro solo una cagna che è stata abbattuta mentre si sfondava la porta della casa.

Ma il romanzo di Morante non è solo la vicenda ricorrente delle oppressioni, il racconto delle atrocità intollerabili della guerra e delle ricomposizioni del potere. La vita degli umili è raccontata da vicino con vivacità e simpatia, nei suoi aspetti curiosi, solidali e a volte meschini.

Pagine indimenticabili raccontano la deportazione degli ebrei e l’accaparramento della farina da parte delle donne della borgata in tempo di guerra. Una grande vitalità appartiene a molti personaggi, soprattutto ai ragazzi e alle ragazze e in particolare al bambino Useppe, alla sua cagna Bella e al mondo naturale e vegetale che i due – inseparabili amici – esplorano insieme.

L’autrice ha disegnato la vicende delle piccole storie individuali  mettendole in primo piano dentro lo sfondo gigantesco e sconvolgente della storia mondiale, ma nelle sue pagine affascinanti dedicate alla natura, ai sogni, ai deliri, alle illusioni e all’infanzia ci ha anche suggerito di collocare le vicende storiche come piccole cose di minore significato dentro una realtà cosmica, vegetale e animale, inconscia o infantile, originaria e primaria, sfondo e matrice.

Il canto degli uccelli, in cui il bambino Useppe riesce a cogliere  la filastrocca “È uno scherzo é uno scherzo, tutto uno scherzo!”, propone un’allegra ironia dei viventi naturali verso la storia umana, le sue vicissitudini e le sue tragedie, tra commozione e leggerezza.

Le immagini di questi giorni ci ripropongono la realtà intollerabile  e assurda della guerra.

I diecimila anni dello scandalo denunciato dall’autrice corrispondono a grandi linee al periodo in cui nel mondo si è imposto il modello patriarcale.

Le pagine della Storia di Elsa Morante, suscitando le emozioni tragiche della pietà e dell’orrore e momenti di commozione lirica, possono farci meditare e accompagnarci nella ricerca e costruzione di un altro paradigma, donarci una prospettiva  più ampia.

Diecimila anni di guerre e barbarie patriarcali sono solo l’ultima  frazione nell’insieme della vicenda degli umani, dal Paleolitico a oggi, che ha conosciuto fasi culturali molto diverse e ampi periodi di pace e di equilibrio tra i generi. Oggi siamo di fronte anche al rischio dell’autodistruzione del genere umano, a causa delle guerre e delle alterazioni climatiche provocate, ma la nostra storia può  avere ancora sviluppi imprevedibili, sia nel bene che nel male, ed è solo una piccola parte rispetto al tempo lunghissimo e agli spazi e forme ancora sconosciute del cosmo vivente.

Vittoria Longoni

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