Eccoci nel cuore dell’estate con tre testi molto belli su argomenti difficili: il finevita, la disabilità e la malattia. Il testo di Ada d’Adamo, “Come D’aria”, Elliot 2023, è il mémoir di una madre che scopre di avere un cancro incurabile, rivolto alla figlia, nata con una gravissima disabilità.
Il libro di Pia Pera “Al giardino non l’ho ancora detto”, Ponte alle Grazie 2016, è il resoconto degli ultimi mesi di vita di una donna, gravemente ammalata, rivolto al suo splendido giardino, ragione di vita e di speranza. Il testo di Paola Pastacaldi, “ Fine di un madre”, Fiorina edizioni 2023, propone i dilemmi di una figlia che ha deciso di condividere fino in fondo gli ultimi mesi e giorni di vita di sua madre.
Sono argomenti che speriamo di poter riprendere insieme nei prossimi mesi. Continuate a seguirci. Potete contattarci alla mail: librarsi@casadonnemilano.it

Ada D’Adamo
Come d’aria
Elliot, 2023

D'AdamoIl libro che ha vinto il Premio Strega 2023 è la storia vera di Ada e di sua figlia Daria, disabile.
E’ una madre a sua volta ammalata e fragile che si rivolge alla figlia ripercorrendo gli anni a partire dalla sua nascita.
E’ lo shock di scoprire, nonostante tutti gli esami di routine, la malattia di Daria definita “oloprosencefalia” semilobare.

Dietro il termine asettico c’è la realtà di una creatura che non vede, non parla, non può camminare nonostante un aspetto apparentemente normale. E c’è una madre che deve fare i conti con questo sconvolgimento dell’esistenza, intraprendere la lunga e faticosa strada, già nota a tanti genitori, dei calvari medici, delle domande che non trovano risposta, dell’affinamento delle proprie capacità di comprensione per rispondere ai bisogni e instaurare una relazione con Daria.

L’incapacità dei medici di una corretta diagnosi prenatale, le ha impedito di scegliere: altrimenti Ada avrebbe abortito.
Lo riconosce anche se ormai Daria è al centro del suo mondo e difende il diritto delle donne, le altre, a scegliere e a non essere giudicate per le scelte che fanno.
Intorno a una realtà non modificabile, si ristrutturano il lavoro di Ada, l’assetto della famiglia, la costellazione degli affetti, le aspettative. Inizia la quotidiana lotta perché a Daria sia riconosciuta la dignità di persona, tra rifiuti e pesantezze, ma anche con improvvise aperture e sprazzi di gioia.

Ada fa i conti con l’inadeguatezza dell’assistenza scolastica, con i limiti degli educatori e dei medici, con l’insensibilità sociale, ma trova anche spazi di accoglienza nei compagni di Daria, negli amici e nei genitori che vivono la sua stessa condizione, un pianeta che ci scorre accanto e che spesso ignoriamo.

Ma la misura non è colma: a quella della figlia si aggiunge la sua malattia.
Una madre che ha sognato di diventare ballerina, che ha continuato a danzare come forma di salvaguardia di sé, si trova ora con un tumore metastatico della mammella che ha intaccato le ossa. E ancora una volta l’intero mondo così faticosamente assestato, viene sconvolto.

La fragilità si duplica, la fisicità del rapporto con Daria deve venire meno e vanno cercate nuove forme di relazione. Citando John Donne, Ada afferma che “la malattia è la miseria massima e la massima miseria della malattia è la solitudine”, anche accanto alle persone care.
Tuttavia la malattia insegna ad ascoltarsi e a ascoltare il proprio corpo, a rivelarsi nell’essenza, a vivere l’eterno di ogni singolo momento.
La malattia insegna a difendersi da chi ferisce anche con le migliori intenzioni, dalle stereotipe consolazioni e a liberarsi di ogni zavorra. Intanto Daria cresce, diventa una donna.
La vita si mescola indissolubilmente alla morte.

Ada D’Adamo riceve il premio Strega nel 2023, dopo la sua morte ma il suo libro è vivo. Sebbene il contenuto sia drammatico, il mémoir ha una grazia e una leggerezza quasi miracolose.
Una lingua che dice cose vere e terribili, ma in modo straordinariamente lieve, Come dice la scrittrice citando Rita Charon “E’ necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio”. Grazie per aver saputo scrivere dell’indicibile.

Marilena Salvarezza


Pia Pera
Al giardino ancora non l’ho detto
Ponte alle Grazie, 2016

PeraAutrice di narrativa, traduttrice e curatrice di classici russi, Pia Pera ha dedicato buona parte della sua opera e della sua vita alla natura, al paesaggio e a un giardino che osserva e modella attraverso la sua cultura e raffinatezza, ma senza costringerlo in forme convenzionali.

Il titolo riprende un verso di Emily Dickinson e rappresenta un diverso punto di vista sulla morte, osservata non attraverso i suoi effetti su di sé ma attraverso il suo riflesso sulle altre creature.
E’ duro da dire, in particolare ad un giardino tanto amato, che la loro felice relazione è al termine per una malattia neurodegenerativa della scrittrice.
Un giardino è longevo, ma richiede le cure e l’amore di chi è tanto più precario e effimero per non tornare allo stato selvatico. Contemporaneamente cura chi lo ama.

Pia Pera aveva già fatto una scelta radicale anni prima, venendo a vivere in un luogo solitario senza altri compagni che il giardino e qualche animale.
La vicinanza con la morte, ora che si sa esposta a tutte le intemperie del corpo, proprio come fosse un elemento naturale, accresce in lei l’empatia con il suo giardino. Si sente parte della natura, non più semplice osservatrice e il libro diventa il diario delle sue giornate da quando la malattia ha preso stabile dimora in lei.

Giornate scandite da amate letture, che diventano spunti di riflessione su vita e morte, nell’alternarsi di sole e di ombra in senso letterale e metaforico. Giornate in cui si sente la vita scorrere impetuosa nelle vene, altre in cui sente le forze tradirla.
La ricerca di cure, l’esplorazione di tutte le strade che la speranza può trovare, l’attenzione ai mutamenti del corpo, che diventa sempre più una prigione, convivono con la ricchezza delle relazioni amicali, con l’amore tanto più struggente quanto più a termine per il giardino, con il rigoglioso fiorire del pensiero e della meditazione.

In questa “straordinaria quotidianità” Pia Pera tira le somme del suo percorso esistenziale. Sebbene possa rimpiangere le occasioni mancate, si rende conto che la dimensione di solitudine, è stata la sua cifra esistenziale, una solitudine che le permetteva un rapporto vitale e costante con la natura e che non è mai stata in contraddizione con una rete vastissima di rapporti costruiti sulle grandi passioni condivise: natura e lettura.

Mentre l’orizzonte vitale si restringe, mentre il corpo non ubbidisce più e si dissolve, mentre nessuna azione concreta la lega più al suo giardino, Pia Pera persegue la ricerca di un addio dolce e naturale.
“La leggerezza interiore nasce forse dal sentirmi libera dalla zavorra terribile del futuro, indifferente al cruccio del passato, immersa nell‘attimo presente come prima mai era accaduto, faccio finalmente parte del giardino, di quel mondo fluttuante di trasformazioni continue.”

Pia Pera ci propone in questo diario un contenuto drammatico con la stessa grazia linguistica, quasi miracolosa, con cui i fiori si aprono alla nostra vista.
L’eleganza della scrittura, la sua lievità profonda sono il riflesso della raffinata essenzialità della sua vita e del suo mondo.
Dalla costrizione della malattia la scrittrice riesce a offrire a tutti una possibilità di libertà e di consolazione, proprio a partire dall’accettazione della nostra fragilità mortale.
Citando con l’autrice i versi di Wislawa Szymborska:

“Non c’è vita
Che almeno per un attimo
Non sia stata immortale,
La morte
E’ sempre in ritardo di quell’attimo”

Wislawa Szymborska, da “Gente sul ponte”

Marilena Salvarezza


Paola Pastacaldi
Fine di un madre
Fiorina edizioni 2023

PastacaldiResoconto profondo, sincero e problematico di ciò che passa tra una madre diventata non più autosufficiente e una figlia che l’accompagna fino alla morte.
Una madre che era stata luminosa e piena di energie e in età avanzata si ritrova allettata, ingabbiata in una sedia a rotelle, ospedalizzata, sempre meno consapevole e sempre più dipendente e arrabbiata.

La figlia vive con lei tutte le fasi del fine vita, le cure e poi il rifiuto delle cure, i ricoveri, fino alla scelta di assisterla a casa propria, con l’aiuto di una e a volte più badanti, capaci di muovere, curare e pulire i corpi e di confortare chi condivide con loro questo trapasso.
La ragione principale di questa decisione, a livello razionale, è che un ricovero protratto rischierebbe di trasformarsi in una agonia più lunga e medicalizzata in modo disumano.
A casa propria, senza sondini e senza accanimenti terapeutici si può morire prima e meglio, in modo più umano, accanto ai propri cari. La figlia in fondo preferisce questa soluzione.
Anche la madre, per quanto si può capire dalle sue diverse e spesso impossibili richieste, sembra desiderarla.

L’amore della figlia resta e si intensifica, anche quando la madre si fa incomprensibile e aggressiva e picchia chi la vuole assistere. Perché? E’ un effetto della malattia o l’espressione della sua volontà di restare autonoma, di non dipendere da altri e poi di non prolungare una vita diventata insopportabile?

La figlia si dibatte in questi dilemmi. Continua però, in tutto il percorso di assistenza alla fine della madre, a denunciare i limiti disumani di una medicina che vuole solo prolungare l’esistenza biologica, senza curarsi della qualità della vita, dei disagi che vive l’anziana e con lei chi le sta accanto. Cerca l’appoggio di medici comprensivi.
In questo ultimo periodo c’è però spazio per i ricordi, per una comunicazione profonda con la badante ucraina, per nuove forme di affetto e di contatto fisico.

Penso che chiunque di noi abbia condiviso il fine vita di una madre si possa riconoscere in queste emozioni, in questi dubbi, anche se il carattere dell’anziana può essere stato più facile, anche se le decisioni sono state diverse.
Il testo invita a riflettere su che cosa significa vivere il momento finale, quali sono le cure veramente giuste e adatte, se e quando la medicina diventa disumana.
E come affrontare le emozioni collegate al degrado della vecchiaia e della malattia, come congedarsi dalla madre che sembra non essere più lei, ma che in alcuni momenti si ritrova.
Come vivere l’inversione dei ruoli, come trovare l’equilibrio necessario tra la cura di sé e la cura dell’altra.

Mentre la madre ridiventa bambina la figlia fa i conti con tutto il suo passato, a partire dalla gravidanza e dai primi rapporti. E si scontra con una società che tende a esorcizzare o a rimuovere la morte, con una medicina condizionata da moventi economici e incapace di affrontare il dolore e l’attesa della morte, se non attraverso prescrizioni di medicinali e di ricoveri.

Esperienze e relazioni con le madri anziane e con le badanti che oggi abbiamo un grande bisogno di condividere, di analizzare insieme, di ridiscutere, alla ricerca di nuovi modi di cura.

Vittoria Longoni

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