Eccoci all’inizio dell’estate con due interventi particolari sul tema dell’ecologia, intesa in senso ampio. Il testo di Ruth Stout, L’orto senza fatica (Gardening Without Work), (Gian Carlo Cappello editore, 2022), propone un metodo di coltivazione integralmente naturale.
Il testo di Fabia Del Giudice, Smart smog. Evidenze scientifiche sui rischi della telefonia mobile e dell’Internet delle cose (Edizioni scienza e ambiente, 2021), analizza il tema dell’elettrosmog, uno dei moltissimi – purtroppo – aspetti e rischi dell’inquinamento ambientale.

Continuate a seguirci. Come Gruppo Libr@rsi vi proporremo nel corso dell’estate diverse minirecensioni e utili consigli di lettura. Consultate la nostra rubrica “Lo consiglio perché” nella home page del sito! Se volete contattarci, scrivete a librarsi@casadonnemilano.it


Ruth Stout
L’orto senza fatica (Gardening Without Work)
Gian Carlo Cappello editore, 2022

Copertina "L'orto senza fatica"Il libro non è un manuale di orticoltura. La stessa autrice non sopportava i manuali.
Ruth Stout è la precorritrice di quello che ora chiamiamo coltivazione biologica, orto sinergico e pratica di permacultura.
Ha scritto diversi libri, sia sull’orticoltura, sia autobiografici, utilizzando uno stile diretto, famigliare, con una narrazione che rende facile e piacevole la lettura.
È come sentire parlare nostra nonna che, mentre racconta il suo lavoro nell’orto, le sue illuminazioni sulla pacciamatura, le peripezie, e le trovate per limitare i danni dei “predatori di verdure”, le osservazioni e gli errori fatti sul campo, è prodiga di consigli e suggerimenti impartiti con dolce ironia e umorismo.
Ma soprattutto elargisce buon senso perché ci ricorda che “Solo chi è privo di buon senso implora regole rigide e vi si attiene acriticamente”.

Dopo anni di attivismo sociale e politico iniziato a 16 anni e dopo aver vissuto a New York da quando ne aveva 18 facendo i più disparati lavori (bambinaia, contabile, segretaria, capo reparto ed operaia, oltre a conferenziera, e coordinatrice di dibattiti), nel marzo 1930 Ruth Stout cambia in modo importante il suo modo di vivere.
Lascia New York, dove si era sposata l’anno prima (1929 a 45 anni) e si trasferisce a Poverty Hollow, un sobborgo di Redding in Connecticut, e lì sceglie una tenuta agricola di 55 acri (22 ha).
Per anni, dall’inizio, vi praticherà un’agricoltura “tradizionale”, seguendo i consigli degli agricoltori e orticoltori che usavano fertilizzanti industriali, irrorazioni velenose e rivoltavano il terreno con arature.
L’aratro meccanico era un mezzo che veniva affittato e si aspettava il proprio turno per poter lavorare il terreno; ma la “buona stagione” per la semina è breve in quelle zone e, nella primavera del 1944, stanca di aspettare l’uomo dell’aratro che tardava, decise che non avrebbe più atteso né dissodato manualmente il proprio terreno.
Seminò e mise a dimora giovani piantine, poi ricoprì tutto con del fieno e il risultato fu sorprendente.
Il suo approccio rispettoso della natura si perfezionò col tempo.
Le pacciamature furono annuali e non solo col fieno ma aggiungendo qualsiasi scarto vegetale che potesse decomporsi naturalmente.
Questo metodo chiamato “metodo Stout” o “no work” elimina gran parte delle faticose pratiche dell’orticoltura tradizionale: dalla zappatura alla sarchiatura, oltre a ridurre enormemente il diserbo, la concimazione ed il consumo di acqua per l’irrigazione.
Niente pesticidi e diserbanti nell’orto di Ruth, gli insetti e le “presenze moleste” sono in equilibrio tra di loro e si controllano a vicenda come le vespe che riducono i bruchi di cavolaia sulle verze.
Buffi disegni esplicativi, fatti da lei, ci accompagnano nella lettura con didascalie divertenti.

Stout non tenne la sua esperienza per sé: scrisse numerosi articoli sulla rivista “Organic Gardening and Farming” e pubblicò diversi libri dal 1955 in poi.
L’interesse suscitato fu notevole.
Sempre pronta a rispondere alle numerosissime lettere che riceveva da curiosi e da “critici” e ad ospitare nella sua casa chi invece voleva imparare sul campo, la Stout si confrontò anche con gli accademici che pubblicavano sulla rivista “OGF” e non solo per iscritto, ma letteralmente sul campo, accettando suggerimenti o raccogliendo sfide.

Il suo metodo secondo natura ci rimanda alle pratiche agricole che, a detta dall’antropologo Graeber e dallo storico Wengrow, furono praticate per millenni tra paleolitico e neolitico, attraverso la semina e la raccolta sui terreni resi fertili dalle tracimazioni dei fiumi e dalle alte erbe disseccate e non tagliate.
Un’ agricoltura fatta quasi come gioco cercando di “fare il minimo indispensabile per garantirsi il sostentamento nelle loro aree, che occupavano per ragioni diverse dall’agricoltura, come la caccia, pesca, commercio ecc.1, evitando che i campi fossero finalizzati allo sfruttamento.
Una coltivazione che non creava proprietà private perché i confini dei terreni utili cambiavano ogni anno ad ogni inondazione e venivano usati collettivamente e dove non era imposta alle persone la dura fatica del dissodamento o del disboscamento.

Il “metodo Stout” è anche una pratica di consociazioni inconsuete, come patate nell’aiuola degli iris, e di rispetto dei ritmi e delle esigenze della vegetazione.
Le piante in natura non hanno bisogno né di potature né di rotazioni se si evita di sfruttare la terra con la monocultura intensiva che in agricoltura equivale ai terribili allevamenti industriali.
Ruth Imogene Stout ci lascia nell’ultimo capitolo con un suggerimento: se vuoi essere felice tutta la vita… coltiva un giardino.
O meglio un vegetable garden.

Rossana Molinari

 1 D. Graeber, D. Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, trad. R. Zuppet (Rizzoli, 2022).

 Ruth Imogen Stout (14 giugno 1884-22 agosto 1980) è stata una scrittrice statunitense, conosciuta per aver delineato le tecniche di orticoltura a bassa intensità lavorativa (“No-Work”), definite poi “Metodo Stout”.


Fabia Del Giudice
Smart smog. Evidenze scientifiche sui rischi della telefonia mobile e dell’Internet delle cose
Edizioni scienza e ambiente, 2021

Copertina di "Smart Smog"Non bastasse la CO2, ovvero l’effetto serra prodotto dall’anidride carbonica, ormai oltre le 417 parti per milione nell’aria e in sempre più rapido aumento; non bastassero i radionuclidi prodotti nel corso di ormai oltre 70 anni dalle esplosioni nucleari, e in giro senza ostacoli per il pianeta; non bastasse l’inquinamento chimico, in accumulo permanente per tutti i composti non in grado di auto o (bio)degradarsi; non bastassero i pericoli dell’intelligenza artificiale ormai fuori controllo, un altro pericolo sembra aggirarsi per il mondo: quello dell’elettrosmog.

In una società sempre più cablata, con un numero sempre maggiore di Stazioni Radio Base, e che incentiva un uso sempre più sfrenato di cellulari, PC, Tavolette, aggeggi elettronici, eccetera, siamo o non siamo anche soggetti al rischio correlato alla presenza di campi magnetici artificiali?
E l’ultimo arrivato, il 5G, va oppure no ad aggiungersi a un sistema, anch’esso ormai fuori controllo, che produce patologie ambientali, come danni al DNA, morte cellulare, infertilità, tumori?
Molti sostengono di sì, e i numerosi studi fatti finora, se indipendenti dagli interessi delle consuete multinazionali dell’elettronica, parrebbero confermarlo.

La terra stessa è un magnete e il nostro corpo pieno di liquidi e di acqua, può fare da antenna.
Uno studio pubblicato su “Lancet” afferma che ‘il fondo elettromagnetico terrestre’, dal 1940 al 2019 è aumentato, in termini di densità di potenza, di un miliardo di miliardi di volte! E questo soprattutto a causa dei nuovi campi elettromagnetici generati dalla telefonia mobile, che vanno a sommarsi e a potenziare quelli naturali.
E per ridurre l’esposizione alle radiazioni da radiofrequenze, suggeriscono di impedire ai bambini di usare dispositivi wireless e di preferire le connessioni cablate.

Non ho, come credo moltissimi altri, gli strumenti per capire se è vero o no: mi pare un dato francamente molto elevato. Ma quello che è certo è che adesso le tempeste e i temporali coi fulmini sembrano talora così violenti da ‘spaccare’ il cielo.
Le onde elettromagnetiche si propagano alla velocità della luce: visto che ci attraversano, per fortuna non ce ne accorgiamo. Non sono le sole: siamo attraversati anche da miliardi di neutrini, che a quanto pare non ci fanno un baffo.

Gli esperti hanno fissato dei valori massimi di esposizione, quasi sempre superati dai produttori: vuol dire che il problema c’è. Anche la fauna e persino la flora sembrano essere sensibili ai campi magnetici. Ci sono persino frequenze che interferiscono con l’attività elettrica cerebrale.

È stato anche osservato che gli spermatozoi esposti al Wi-Fi presentano maggiori difetti a livello della testa e maggiori danni al DNA. E ovviamente un maggior uso di questi dispositivi aumenta anche l’inquinamento correlato.
La tutela della salute può anche essere sacrificata a opzioni militari, oltre che economiche, dato che il 5G pare sia anche correlato allo sviluppo di armi ‘ipersoniche’.

Insomma, c’è di che essere preoccupate anche per questo.
Chi volesse saperne di più può leggere per intero Smart smog di Fabia Del Giudice.

Valeria Fieramonte

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