Eccoci con una puntata primaverile dedicata al tema della maternità, con attenzione a esperienze che rivelano forme insolite, difficoltà giuridiche, percorsi complessi: temi personali e universali insieme.
Il testo di Elena Sorba, Back to mum. Cammino fino a voi (Cornaredo, MI, Arca edizioni, 2022) denuncia i casi, purtroppo numerosi, in cui alle madri vengono sottratti i figli con la falsa accusa di essere responsabili delle manifestazioni di rifiuto dei bambini verso i padri violenti e maltrattanti; e altri casi di donne che nei procedimenti giudiziari sono considerate non vittime ma colpevoli, e vittimizzate una seconda volta. Il libro di Simona Maria Camisani, La danza della libellula. Storia di vita e di adozione (Palermo, Mercurio, 2022), nella collana “Zoè narrazioni autobiografiche”, narra il percorso di una donna alla ricerca di un lavoro autentico e della maternità, passando attraverso le vie difficili della fecondazione assistita e dell’adozione internazionale. La narrazione autobiografica di Antonella Lattanzi, Cose che non si raccontano (Torino, Einaudi, 2023) propone con grande talento narrativo e stilistico una ricerca angosciosa di maternità, attraversata dall’ambivalenza e dai fallimenti.

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Elena Sorba
Back to mum. Cammino fino a voi
Arca edizioni, 2022

Copertina libro recensito di Elena Sorba, "Back to Mum. Cammino fino a voi" È un ritorno alla madre doloroso quello di Elena Sorba, cui sono stati sottratti i figli in seguito a una denuncia di violenze domestiche da lei fatta contro il marito e padre dei bambini.

L’incipit del libro, da lei scritto anche come denuncia di questa esperienza, già da solo fa capire molte cose: “Dedico questo libro alle mamme e ai bambini che hanno dovuto imparare a sopravvivere dopo che è stato strappato il loro cuore”; e ancora: “ricordatevi di vivere ogni tanto per non morire di dolore”.

I suoi figli hanno 5 e 7 anni, e dal mese di novembre vivono in comunità: “La mia colpa? – dice Elena – Aver cercato di proteggerli. Sono una donna normale con un lavoro normale, ma quando a un certo punto della mia vita ho trovato il coraggio di denunciare le violenze subite, questo gesto ha messo in moto una macchina infernale, una sorta di tortura istituzionale. In questo ingranaggio impietoso sono stati travolti anche i miei bambini: quello che è accaduto potrebbe sembrare incredibile, ma negli ultimi anni situazioni simili alla mia si stanno moltiplicando. Ho sporto denuncia per proteggerli e chiedere aiuto e me li hanno portati via. Ora vivono in una comunità, non possono ricevere telefonate, non possono vedere i nonni gli zii i cugini gli amici… stanno vivendo come orfani. Io li posso vedere solo un’ora e mezzo al mese e in uno spazio neutro. Un abuso nell’abuso”.

Privata dei figli e per far fronte al dolore, intraprende per protesta “Il cammino di Santiago”. Sarà in qualche modo, come sempre nelle grandi sofferenze, un viaggio iniziatico.

Scrivere è come rivivere, costringe a ricordare e dunque fa male, ma Elena ricorda l’esperienza di altre madri cui sono stati sottratti i figli. Come la madre di Luca, un bambino gravemente epilettico, che è stata accusata di essere colpevole dei disturbi del figlio; o quella di Silvia Mari, una madre di Imperia che, per non consegnare la figlia, si era chiusa nel bagno di casa. Si è ritrovata la porta forzata e una ventina di persone tra forze dell’ordine, operatori dei servizi sociosanitari, direttori ASL e 118. Hanno sollevato di peso la figlia mentre lei perdeva i sensi a causa di una puntura nelle natiche. Al risveglio in ospedale, legata in contenzione a un letto, alle sue proteste le hanno fatto un TSO, ossia un trattamento sanitario obbligatorio. Sua figlia aveva dieci anni e mezzo e col padre non ci voleva stare, ma si è ritrovata in comunità per recuperare un rapporto col padre di cui aveva paura, sottoposto a misure cautelari per condotte lesive e pericolose, e per di più scioccata dal trattamento subito dalla madre.

Elena si chiede perché l’Italia sia piena di panchine rosse, se alla violenza subita dalle donne si aggiunge una seconda violenza istituzionale che rende le donne vittime una seconda volta. Protesta perché le madri che denunciano sono trattate peggio dei carcerati: lei può vedere i suoi bambini due volte al mese per un’ora, mentre la carta dei diritti dei detenuti, approvata il 5 dicembre 2012, consente ai detenuti sei colloqui al mese, con non più di tre persone per volta.
Conclude che i detenuti hanno più diritti dei suoi figli, che pure non hanno fatto nulla.

Nel suo caso non è stato rispettato neppure l’articolo 4 della legge 149/91, che prescrive che debba essere indicato il periodo di presumibile durata dell’affidamento, che deve essere rapportabile agli interventi volti al recupero della famiglia d’origine.

In Italia sono circa 23 ogni giorno i bambini allontanati dalla famiglia, mentre secondo lei andrebbe allontanato solo il genitore abusante, e le famiglie aiutate a casa loro. Dovrebbero funzionare solo strutture legate all’emergenza e per il tempo strettamente necessario, mentre attorno alle cooperative c’è un grande giro di denaro, di bandi e di posti di lavoro, ma ogni tanto ci vorrebbe un magistrato che pensa: “troppi casi per essere veri”, anche se questo dovesse mettere in crisi un sistema di clientele politiche.

Ricorda una madre che ha protetto il figlio dal padre che lo stava accoltellando facendogli da scudo. Dopo il ricovero di entrambi in ospedale, Il figlio le è stato sottratto egualmente e si trova presso una casa famiglia.

Secondo la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, “la rilevata tendenza degli operatori di negare la violenza in nome della bigenitorialità espone le vittime – donne e minori – a ulteriori sofferenza e pregiudizi, nonché al concreto rischio di subire la reiterazione delle condotte violente. Detta tendenza costituisce innegabilmente una forma di vittimizzazione secondaria”.

Non pare tuttavia che il giudizio della Commissione d’inchiesta sia servito a ridurre le ingiustizie. La Convenzione di Istanbul, all’articolo 18, stabilisce che gli stati dovrebbero evitare la vittimizzazione secondaria, che consiste nel far rivivere alla vittima le sue condizioni di sofferenza e il cui effetto principale è scoraggiare le denunce.

Eppure anche la Convenzione non sembra avere avuto molto seguito. Come si capisce dal racconto di questa madre: “Il mio ex compagno è stato condannato per violenza. L’ospedale ha certificato che il bambino, col padre, è in pericolo psichico, fisico e evolutivo. Ma lo stesso è stato disposto dal tribunale l’affido condiviso. Io non sento più niente, neanche il dolore”. E di quest’altra: “Il giudice ha affidato in via esclusiva mio figlio di appena 4 anni al padre, mentre lo stesso era indagato per undici denunce sporte da un centro psicologico pubblico per maltrattamento conclamato e sospetto abuso sessuale paterno”.

Se le madri non vengono credute, i figli non vengono ascoltati. Quando i bambini non vogliono vedere il padre, viene attribuita alle madri la colpa. Ma se ci sono violenze, non è normale che i bambini vogliano stare con la mamma?

Invece nei tribunali italiani capita che si applichi ancora di fatto – senza nominarla – la cosiddetta alienazione parentale, benché sia stata sconfessata anche dalla Cassazione: la sentenza del marzo 2022 definisce quest’ultima una teoria assolutamente priva di basi scientifiche e  priva di validità sul piano legale. Le CTU o Consulenze tecniche d’ufficio, sono pareri di psicologi erogati senza alcuna indagine vera né alcun accertamento dei fatti.

Questa quasi incredibile situazione aveva visto l’interesse della deputata Stefania Ascari nella scorsa legislatura, che in una relazione alla Commissione giustizia proponeva anche di istituire una banca dati nazionale per capire cosa succede nel tempo ai minori fuori famiglia.

Elena Sorba è decisa a dare battaglia, per sé e per le altre madri, e il suo libro di denuncia va in questa direzione.

Valeria Fieramonte


Simona Maria Camisani
La danza della libellula. Storia di vita e di adozione
Mercurio, 2022

Copertina libro recensito: Simona Maria Camisani, La danza della libellula. Storia di via e di adozione"Si discute e si scrive molto, oggi, di tecniche di fecondazione assistita; di complicati affidi, più o meno “congiunti”, ai genitori separati (a volte condotti contro le madri), e di adozioni di vario genere e tipo. Sono in gioco in ogni caso intense esperienze di donne, vissute in modi molto diversi. Parecchie cominciano a scriverne, in forma autobiografica e/o narrativa.

Tra le tante storie, scelgo e consiglio questa perché unisce il dolore del figlio “che non viene” alla speranza, alla ricerca di una realizzazione professionale autentica e a un’adozione fondamentalmente serena: per quanto può esserlo in ogni caso un’esperienza di maternità, in cui tanto spesso, come cantava De André, “gioia e dolore hanno un confine incerto”. È la storia di una mamma che oggi è arteterapeuta a indirizzo psicodinamico, professionista Apiart; di una donna che ha cercato e trovato in vari campi uno sbocco autentico.

Ciò che rasserena queste vicende complicate e questi percorsi in salita, nel racconto autobiografico di Simona Camisani, è la personalità dell’autrice, che attraversa crisi e delusioni senza farsene devastare, anzi facendone una leva creativa; inoltre può contare sulla solidarietà attiva di molte altre donne e pratica l’arteterapia come professione e grande risorsa personale.

Il libro è dedicato al figlio Luis, che frequenta il liceo artistico e ha rielaborato la foto dell’autrice posta sull’aletta posteriore del libro. Sappiamo quindi che la storia qui narrata ha un esito in fondo positivo, come suggerisce anche la leggerezza della danza della libellula contenuta nel titolo e nell’immagine di copertina.

Camisani ci fa partecipi del suo percorso. Della crisi personale che nel 1994 con un atto di coraggio e di autenticità l’ha portata a licenziarsi dall’ufficio della multinazionale in cui operava; del contesto di dolore e depressione che accompagnava quella metamorfosi; del matrimonio con Paolo, compiuto dopo otto anni di relazione altalenante.

La ricerca di un lavoro autentico ha avuto altre tappe complesse in diverse città europee e a New York, fino alla scelta dell’arteterapia.

In questo percorso naturalmente passano gli anni.

Quando Simona e Paolo si rendono disponibili alla possibilità di diventare genitori incontrano difficoltà, solo in parte fisiologiche. La coppia rischia di entrare in crisi. La mancata maternità, che non arriva nonostante un desiderio di fondo, lascia un’ombra nelle ricerche professionali dell’autrice. La coppia attraversa perciò il percorso della procreazione assistita, con relative massicce assunzioni di ormoni, controlli medici invasivi e delusioni ricorrenti. Infine Simona si orienta verso l’adozione internazionale.

Anche qui, la strada è in salita; sono oltre quattro anni di tentativi e di delusioni. L’abbinamento adottivo della coppia con una bambina brasiliana va in fumo per difficoltà burocratiche. In fondo al tunnel arriva finalmente l’incontro con Luis, bambino brasiliano che ha già una decina di anni.

Cinquanta giorni in Brasile. Emozioni incontenibili. Gioia immensa, abbracci, ma è faticoso stabilire un contatto profondo con lui e inserirlo nel contesto milanese, così diverso dall’ambiente in cui Luis è cresciuto. Bisogna conoscere e rispettare la natura del ragazzino.

Mediazioni, esplorazioni, un po’ di saudade. Molta poesia. Selvaggia pazienza. Simona è aiutata dalla sua famiglia, dall’arteterapia, da insegnanti comprensive, da una preziosa collaboratrice di madrelingua portoghese.

Nella lettura seguiamo la crescita di questo figlio. Luis in fondo cresce bene, anche se nel mondo si intensificano intanto le guerre e le difficoltà nell’accogliere veramente persone che vengono da altri contesti.

Anche se Simona è nata vent’anni dopo di me, i nostri percorsi di donne in cerca di autenticità hanno moltissimi punti in comune. Anche per questo ho letto la sua narrazione autobiografica con particolare interesse e partecipazione. La consiglio a tutte le donne e a tutte le persone che si aprono alla genitorialità. Nelle pagine di questo libro troverete moltissime sorprese e sarete accompagnate/i da unafiducia di fondo nell’amore e nell’arte.

Vittoria Longoni


Antonella Lattanzi
Cose che non si raccontano
Einaudi, 2023

Copertina libro recensito "Cose che non si raccontano"È una narrazione autobiografica piena di angoscia, di dolore, di talento, di sangue e di tenacia. Antonella Lattanzi ha cercato sempre di affermarsi come scrittrice; per seguire questo suo desiderio ha abortito due volte quando era molto giovane.

Dopo due decenni, con un compagno che è riuscita a coinvolgere, ha tentato di diventare madre e ha vissuto la strada in salita della fecondazione assistita con molte delusioni; i tre embrioni che infine era riuscita a portare in grembo (tre piccole femmine, troppe per poter sopravvivere tutte nella situazione data, con rischio di morte anche per la gestante) sono finiti nel nulla, in drammatiche emorragie.

La società ancora patriarcale oggi chiede molto alle donne, ma non ne offre le condizioni; e noi chiediamo molto a noi stesse. Ci facciamo strada tra infiniti ostacoli. Il desiderio di scrivere libri e quello di mettere al mondo un figlio sono sentiti a volte con la stessa intensità. E può capitare che i due percorsi vadano in parallelo, oppure che entrino in rotta di collisione.

Molte giovani donne rinviano il momento della maternità perché impegnate innanzitutto a realizzarsi nel lavoro, nelle relazioni e nelle creazioni.

Ne abbiamo parlato anche in un incontro recente alla Casa delle Donne: alcune, più fortunate, oggi scelgono la maternità a trent’anni o anche prima, con un percorso professionale già avviato, riservandosi di portarlo a piena realizzazione quando il bambino o la bambina ha già qualche anno. Ma per poterlo fare occorrono condizioni economiche, relazionali, personali e contrattuali decisamente privilegiate.

Questo libro ci porta invece in mezzo a un conflitto lacerante tra affermazione professionale e ambivalenze materne, sfiorando la tragedia; sono pagine che si fa fatica a volte a leggere per la loro lucida e spietata durezza, perché danno spazio anche a anche emozioni livide di rabbia e di invidia furibonda. E a forme di cattiveria e insensibilità da parte di medici, infermiere, altre donne, commenti estranei, personale sociosanitario. Tutte cose che non si raccontano, di solito.

Lattanzi nella lettura lascia senza fiato per il suo coraggio, per le sue capacità narrative, compositive e stilistiche; lascia a se stessa e a chi legge, come risorse per affrontare temi tanto duri, solo la qualità della scrittura, qualche sprazzo di ironia e la sua incrollabile tenacia.

Cos’è un romanzo, davanti a tutto questo dolore? Niente. Perché sto continuando a lavorare, senza mai smettere? Perché continuerò a farlo sempre, con tutto quello che ancora succederà? Mi viene in mente solo un’immagine: una mano aggrappata alla roccia, il corpo che penzola nel vuoto. La mano si tende, non ce la fa più. Forse è questo il significato di: aggrapparsi a una motivazione. Che poi quella motivazione sia la stessa che mi ha impedito di fare figli in tempo, sia la stessa che mi ha portato dritto dritto qui, in queste tre morti, in questi tre omicidi, vorrebbe dire metterla sotto accusa. E io non posso perché mi troverei davanti a una totale assenza di senso. Non la metto sotto accusa, mai, nemmeno adesso che scrivo.” (p. 184 )

Maria Rosa Cutrufelli ha parlato dell’“inchiostro bianco” in cui intingono la penna le autrici, bianco e nutriente come il latte materno. Questo libro invece è scritto col rosso vivo del sangue femminile. Sangue come maturità di donna, coraggio e vitalità; sangue desolante delle mestruazioni che arrivano indesiderate dopo un tentativo andato a vuoto; emorragie laceranti e rischiose a séguito di aborti procurati e spontanei.

Capita che all’uscita dall’ospedale dopo un ennesimo fallimento e un raschiamento (una “revisione uterina”, dicono asetticamente i medici), la protagonista si consoli vedendo il suo ultimo libro in bella mostra in vetrina, in una libreria. Poi magari anche il romanzo delude perché non è accettato al Premio Strega (ma questo ci interessa poi così tanto???).

Ci sono storie di fecondazione assistita ben più serene e coincidenze quasi magiche. Una mia amica, immediatamente dopo aver consegnato all’editore per la pubblicazione il manoscritto del suo libro su questo argomento, è riuscita a rimanere incinta, dopo molti tentativi di fecondazione andati male; ha vissuto la gravidanza con felice energia e ha messo al mondo due amatissimi gemelli, una femmina e un maschio.

Questo libro mette invece di fronte al lato ambivalente, pericoloso e oscuro di una ricerca frustrante di maternità. Sono cose da raccontare e da sapere. Per esempio che cosa si può nascondere dietro l’asettica parola “riduzione embrionaria”, che indica il necessario intervento di soppressione di un embrione quando, anche per estrema sfortuna, ce ne sono troppi in un grembo. Quindi raccontiamoci tutto, anche realtà molto dolorose da vivere, da scrivere e da leggere. Senza tacere o rinnegare nulla.

Vittoria Longoni

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