Eccoci con riflessioni importanti. Le puntuali analisi di due esperte di statistica e macroeconomia su quanto ci costi oggi proseguire un modello economico e sociale  incentrato sui bisogni  e lo stile di vita dei maschi, Ginevra Bersani Franceschetti e Lucile Peytavin. Il costo della virilità’.

Il Pensiero Scientifico Editore, 2023. E il libro postumo di Michela Murgia coi suoi  pensieri  molto creativi sulle nuove forme di famiglie e di generazione: la possibilità  di scegliere ed essere scelti da figli/e “d’anima” senza legami biologici e codificazioni, il modello (o antimodello) queer, la complessità della gestazione per altri. Dare la vita di Michela Murgia, a cura di  Alessandro Giammei, Rizzoli 2024

costo virilitàGinevra Bersani Franceschetti e Lucile Peytavin.
‘Il costo della virilità’
Il Pensiero Scientifico Editore, 2023.

Quanto ci costa la virilità.

Questo singolare libro rovescia in modo definitivo la narrazione ancora largamente corrente della donna come costola dell’uomo, ovvero come dettaglio più o meno rilevante del sé maschile, e che diventa inutile nominare come soggetto.

Grazie alle scienze statistiche e matematiche e a un occhio attento alla macroeconomia, le due autrici, Ginevra Bersani e Lucile Peytavin, smentiscono la vulgata dominante che fa apparire le donne simili all’uomo, o per lo meno quasi simili, in ogni genere di comportamento asociale

Così non è, ma ci volevano economiste esperte di statistica per dimostrarlo con dati inoppugnabili.

In Italia ( ma immagino anche nel resto del mondo) gli uomini sono responsabili della grande maggioranza dei comportamenti antisociali: rappresentano l’85 % delle persone incriminate dalla giustizia, l’83% dei responsabili di incidenti stradali mortali, il 92% degli imputati di omicidio, il 100% dei pedofili, il 98,7% degli stupratori, il 90% degli appiccatori di incendi, il 90% dei rapinatori e estorsori, il 93% degli spacciatori di stupefacenti, il 92% degli evasori fiscali, ecc.

I problemi, pare, siano iniziati sin dal paleolitico ( tra i 3 milioni e i 12mila anni fa): tra gli ominidi non sapiens non è affatto detto che ci fossero bestioni che si portavano le femmine nelle caverne prendendole per i capelli, confinandole alle cure domestiche e dei figli. Questa è una iconografia nata nell’800, le femmine all’epoca erano molto più robuste di adesso, tanto che ci sono stati gustosi equivoci di scheletri molto adorni e dunque in ruoli apicali, attribuiti a uomini mentre poi le prove genetiche hanno dimostrato trattarsi di donne ricche e importanti.

La svolta a favore dei maschi è avvenuta del neolitico, è in questo periodo che ha preso corpo la nozione di virilità, e con l’avvento delle armi i maschi hanno iniziato a imporsi oltre che concretamente anche simbolicamente.  Gli studi sulle ossa confermano questa versione, perché si riscontrano sullo scheletro delle femmine tracce di violenza molto più sistematiche, e anche patologie da denutrizione.  Si assiste a una riduzione della robustezza dello scheletro femminile.

Qualche ruolo ce l’hanno forse anche gli ormoni, in particolare il testosterone, ma il resto lo fa l’educazione: è stato dimostrato che le madri agiscono in modo diverso con figlie o figli, per esempio lasciando i maschi più liberi di poppare e di fermarsi quando lo desiderano. Anche le rappresentazioni che i genitori elaborano circa i figli sono diverse per sesso. La virilità poi col tempo è diventata una costruzione ideale.

Per venire all’oggi, nelle scuole i ragazzi sono all’origine della quasi totalità delle violenze, occupano la maggior parte dello spazio nei cortili di ricreazione con giochi di pallone e risse.

Nella costruzione della virilità pare che sia centrale il confronto gerarchico con l’altro, nessuna supremazia esiste senza un inferiore da disprezzare o addirittura umiliare.

Dato che le donne sono circa la metà della popolazione, la cristallizzazione della ‘violenza virile’ ne degrada fortemente la vita. Nel solo 2020, per venire a anni recentissimi, si sono contate 116 donne uccise, duemila bambini lasciati orfani e le vittime di violenze, specie per le casalinghe, quasi sempre da parte del coniuge o dell’ex, sono state oltre 32mila.

Il 70% delle ragazze dichiara di aver subito molestie nei luoghi pubblici, e con le nuove tecnologie il 41% ha subito un’umiliazione tramite post pubblicati dai loro contatti social. Poi non ci si deve stupire se, agli inizi dell’avvento dell’informatica, le donne erano presenti e attive  in numero pari o anche superiore agli uomini, mentre oggi sono un’esigua minoranza.

Il 98,7% delle vittime di violenza sessuale sono donne. Il restante 1,3% è ipotizzabile siano transessuali, omosessuali e uomini che non si conformano ai canoni voluti della virilità.

Gli adolescenti non hanno nessuna vera educazione sessuale, che dovrebbe basarsi sull’empatia e sul rispetto dell’altro. Il loro contatto con la sessualità spesso si riduce alla pornografia. Per ironia della sorte, le bambine invece sono incentivate a sognare inesistenti principi azzurri.

Non è vero che gli uomini hanno più esigenze sessuali delle donne Resta però il fatto che, essendo la sessualità femminile quasi un tabù, spesso le donne stesse non riescano a riconoscere la loro eccitazione sessuale e occorra loro più tempo per mettere a fuoco il desiderio fisico.  Invece dietro le aggressioni sessuali maschili non ci sono desideri irrefrenabili, ma decisioni pianificate e razionali. Lo dimostra del resto anche l’aggregazione di gruppi di uomini che teorizzano e giustificano l’odio verso le donne e premeditano azioni collettive.

Un’altra componente importante del paradigma della virilità sono i comportamenti a rischio: i dati disponibili sull’insieme di infortuni indicano che i maschi sono molto più coinvolti in incidenti gravi. Il 41% degli uomini è stato in torto nel creare incidenti rispetto al 16% delle donne. Le donne però ne muoiono di più, perché il tipo di auto che guidano, in genere più piccolo e leggero, le espone a maggior rischio.

Le autrici ritengono che persino lo sport sia un potente vettore di apprendimento della dominazione: quelli praticati soprattutto da maschi, come il calcio, il rugby, il wrestling o la boxe, sono simboli di mascolinità potente e aggressiva. Ora a volte li praticano anche le ragazze. E’ un fatto che questi stessi sport beneficino di quasi il 75% dei bilanci pubblici destinati al tempo libero dei giovani – al contrario, cosa facciamo per includere in questi spazi anche le donne, che spesso sono indotte a vivere lo spazio pubblico come una zona di pericolo?

Per le donne invece è la valorizzazione della bellezza a diventare spesso una prigione: diventano sovraesposte a standard di bellezza insostenibili ai quali si adeguano spesso a scapito della loro salute. Alla nascita il cervello umano dei due sessi è predisposto all’empatia, dato che siamo tutti interdipendenti gli uni dagli altri, ma mentre l’empatia nelle donne è coltivata, negli uomini è disincentivata.

La virilità è dunque diventata la prima causa di delinquenza e criminalità. I suoi costi sono stati calcolati dalle autrici, e ammontano a 99 milioni di euro all’anno solo in Italia, che si potrebbero spendere molto meglio per il benessere di tutti. Dato che la stragrande maggioranza dei crimini è commessa da uomini, le attività dei Ministeri della Giustizia e dell’Interno sono ampiamente dedicate a loro.

Resta il fatto che il 95% dei detenuti carcerati sono uomini. Più banalmente, negli stessi spazi pubblici sono quasi sempre loro a insultare, sputare, degradare e urinare, anche per mancanza di urinatoi pubblici. In confronto, e nel mondo intero, la criminalità femminile è quasi inesistente.

In questo mondo sempre più fuori controllo, con sempre più guerre e che avrebbe bisogno di un ricovero psichiatrico con somministrazione di qualche calmante collettivo, – va bene, qui scherzo un po’, – non è facile indicare soluzioni. Nei paesi del Nord Europa per esempio, hanno tentato un’istruzione più neutrale tra i sessi, ma la cosa non sembra aver funzionato.  Per dire, la percentuale di donne vittima di violenza è del 17% in Finlandia rispetto al 12% in Francia e Germania, ma può darsi che sia anche perché nel Nord le donne denunciano di più le violenze…

I costi delle guerre qui non sono stati calcolati, anche perché non sono calcolabili davvero e non era il compito del libro. Non è stato calcolato neppure l’impatto della virilità sui cambiamenti climatici e l’ambiente. Ma qualcosa bisognerà pur fare per modificare uno stato di cose ormai pericoloso per la sopravvivenza stessa della nostra specie sul pianeta: per esempio, insegnare l’empatia anche agli uomini.

Valeria Fieramonte.


dare la vita“Dare la vita” di Michela Murgia, a cura di  Alessandro Giammei, Rizzoli 2024

Gli amici e i componenti della “famiglia queer” di Michela Murgia hanno aiutato l’autrice a esprimere e dettare i suoi pensieri negli ultimi giorni e li hanno raccolti e curati in un libro postumo.

Ne  è risultato  un testo che contiene l’eredità  spirituale e concettuale della scrittrice sarda, sempre  incisiva  e innovativa nelle sue considerazioni.

“Si può essere madri di figli e figlie che si scelgono, e che a loro volta ci hanno scelte?” La risposta dell’autrice è positiva, senza riserve: offre un manifesto delle famiglie “altre”.

Innanzitutto  si parla della “famiglia queer”: una proposta che non si lascia chiudere in una semplice definizione. La cerchia vitale di persone che convivono con Michela Murgia in una grande casa romana nella parte finale della sua vita si è costituita per legami e rapporti profondi di solidarietà, comunicazione e condivisione che non si basano su parentele di sangue e forme codificate. C’è un marito, ma Michela ha scelto il matrimonio soprattutto per garantire una maggiore libertà di scelta sulla conclusione della propria vita. Solidarietà e condivisione di valori creano  basi più importanti dei tradizionali legami di parentela e “di legge”. La “famiglia queer” non si lascia definire proprio perché è un modo concreto per superare le categorie rigide (come quelle di persone eterosessuali, omosessuali, bisessuali ecc) e i codici prestabiliti.   Si tratta  di qualcosa di simile alle affiliazioni “d’anima” che Michela Murgia ha ripreso da antiche tradizioni sarde e vissuto con quattro persone, “figli d’anima”, frutto di una libera e responsabile scelta reciproca. Potremmo dire che nella “famiglia queer” i rapporti sono di libera scelta, solidarietà e affinità valoriale, con un coinvolgimento dei corpi, se c’è, variabile e fluido.  La solidarietà e  la comunicazione possono andare oltre a  quanto avviene di solito  nelle  amicizie. “Aprire all’altra/o non riduce ma amplifica l’amore”. La “queerness” accoglie il cambiamento come strutturale, vitale.  Naturalmente l’autrice non dà ricette valide per tutt*: si tratta di scelte profondamente libere e personali.

Questo tipo di famiglia ha sostenuto intensamente Michela nella sua malattia e le ha consentito di dare un significato nuovo e molto bello agli ultimi giorni di vita e alla sua eredità di pensieri e messaggi. Molti -me compresa- hanno pensato che questo è il modo più significativo e più umano , forse anche più  aperto alla speranza, di morire.

L’altro argomento del libro è una riflessione lucida e aperta sulla gestazione per altri e sulle modalità della riproduzione assistita. Michela Murgia insiste soprattutto sul non confondere gravidanza e maternità. Per questo l’autrice ha sempre dichiarato la sua contrarietà all’appello di Senonoraquando-libere che usa l’espressione impropria “maternità surrogata” nel momento stesso in cui ne propone la “messa al bando”. “Per secoli siamo state infatti madri per forza, impossibilitate a sottrarci al percorso del sangue e alle funzioni collegate, se non  a prezzo di una fortissima condanna sociale. Sono state le lotte del femminismo del secolo scorso a costringere la società a ripensare la maternità fino a definire madre solo quella che accetta di esserlo”. (..) “Si può discutere invece di gravidanza surrogata, perché la legge italiana – coi limiti che conosciamo fin qui- permette già ora a una donna che resta incinta di scindere i due processi per rifiutare un ruolo indesiderato di madre, sia attraverso l’interruzione di gravidanza, sia attraverso la rinuncia permanente a occuparsi del* neonat* ( Nota: qui il testo usa lo schwa, che non ho in tastiera).(…) “Sbalordisce quindi che a utilizzare la categoria del legame “naturale” possano essere donne che si richiamano al percorso femminista.” Partendo da queste premesse, la proposta della gestazione per altri diventa possibile, ma resta molto problematica in alcuni aspetti e forme. Soprattutto nel caso della GPA commerciale, che si presta a molte degenerazioni e a molti dubbi. Soprattutto sulla libertà di scelta che resta in capo alla gestante. Infatti Murgia è favorevole a che le gestanti siano “libere di scegliere fino all’ultimo”.

In ogni caso, secondo l’autrice, bisogna tenere conto del fatto che “senza regole vince il mercato”. Sono molte le questioni complesse su cui Murgia ragiona senza rispamiarsi nessuna possibile obiezione, né riguardo all’eventuale condizione di povertà delle gestanti per altri, né di fronte ai bambini che ne nasceranno: offre le sue risposte, a volte con un margine di dubbio.

“E’ autodeterminazione il pensiero che mi impedisce di sentirmi veramente donna se non divento anche madre? Non lo so, perché questa spinta a riprodurmi biologicamente non l’ho mai avvertita dentro di me al punto di considerare un’ipotesi del genere. So però che davanti al desiderio di un’amica, di una sorella del cuore, quello che non ho mai chiesto a un’altra per me stessa, lo farei io liberamente per lei. E non vorrei che esistesse una legge che mi dicesse che non posso farlo.”

Un libro generoso e  ricco di riflessioni, su cui discutere, con cui crescere.

Vittoria Longoni

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